La cura del cibo, il cibo come cura

Il cibo è una componente elementare dell’accoglienza, offrirlo comporta l’accettazione implicita del diritto dell’altro a esistere e rappresenta una dichiarazione di responsabilità rispetto al ruolo che vogliamo assumere per garantire questo diritto.
Offrire cibo a uno “straniero” aggiunge ancora qualcosa. L’arrivo di uno straniero, infatti, tende necessariamente a rappresentare un elemento di perturbazione per la comunità, una realtà che ci interroga e alla quale non si può rispondere in modo convincente né con l’assimilazione, che nega l’identità dell’altro, né con l’espulsione che dell’altro nega l’umanità. Anche nell’accoglienza non basta dunque offrire il nostro cibo perché il problema, che il cibo rende manifesto, è decidere se la nostra identità comprenda l’apertura all’esperienza altrui e la volontà di contaminarsi, o si limiti a un paternalismo, magari affettuoso, se debba prevalere insomma la curiosità o un senso implicito di superiorità.
Lo straniero seduto alla nostra tavola diventa, nella sua diversità, un commensale come tutti gli altri solo quando la sua presenza e la sua parola diventano un patrimonio della comunità che lo accoglie.
La mensa rappresenta da questo punto di vista un’esperienza primaria perché i pasti sono preparati per sottrazione intorno ai cibi che devono essere esclusi in quanto incompatibili con le diversità culturali e religiose di chi la frequenta. Sono pasti ibridi, contaminati, per essere accettabili da parte di tutti. Questi pasti inducono una risposta di adattamento e per questo rappresentano l’inizio di un dialogo attraverso le pietanze.
L’offerta del cibo si confronta con la pluralità dei gusti, lascia riaffiorare la singolarità delle persone e si carica, magari in modo involontario, di stimoli per la fantasia creativa dei cuochi.
Si impara insieme una lingua diversa che non appartiene davvero a nessuno e che appartiene a tutti, una lingua costruita, attraverso il cibo, su di una reciproca disponibilità a partire da culture culinarie molto lontane.
È così: la mensa non si occupa solo di distribuire un pasto, ma rappresenta anche, e forse soprattutto, un primo luogo di scambio e di incontro dove il cibo si fa possibile veicolo di relazioni, tra i rifugiati e i volontari. Un veicolo che dilata il significato del pasto, che apre la porta a uno spazio condiviso dove prendere reciprocamente le misure, dove diventare, per quel tempo breve, parte di una comunità vasta che si riconosce nell’atto semplice di far fronte a un bisogno.
Questa dimensione universale del cibo fa venire alla mente una filastrocca di Gianni Rodari, Il Pane, che recita: «S’io facessi il fornaio – vorrei cuocere un pane – così grande da sfamare – tutta, tutta la gente – che non ha da mangiare. – Un pane più grande del sole, – dorato, profumato – come le viole…».
Un pane grande come il mondo che solo un mondo diverso sarebbe forse in grado di preparare, un cibo che, nella sua semplicità, richiede comunque cura e attenzione perché ogni pasto, al di là del suo valore alimentare, possiede anche un valore simbolico. La mensa del Centro Astalli cerca infatti di non fornire sempre lo stesso cibo con le stesse ricette, ma si sforza di offrire, nella preparazione dei piatti, segnali di attenzione alle persone e alla comunità. La forma che le pietanze assumono vorrebbe essere parte dell’intenzione di solidarietà che le caratterizza nella presentazione come nella combinazione dei sapori.
Una cucina di base che prova dunque a rendersi speciale. Non è certo il pranzo di Babette con la varietà lussureggiante di forme e di sapori descritti da Karen Blixen nel suo libro del 1950, in cui una cuoca fuggita da Parigi in Danimarca dopo la sconfitta della Comune, cura le ferite di una comunità divisa, appartata e triste, facendole ritrovare se stessa intorno a un fantastico pranzo. La mensa si appropria del medesimo rifiuto a rassegnarsi al grigiore di una logica di mera sopravvivenza. Il cibo rappresenta certamente una forma elementare di donazione che consente la vita ma è costantemente qualcosa di più e di diverso. Il cibo è la dichiarazione di un’intenzione e di un programma per i rifugiati che ostinatamente continuano a vivere e a inventarsi le forme di una vita diversa. Riconoscere i propri limiti nel sostenere fino in fondo quella intenzione e quel programma non ci impedisce di provare a sostenerli.
Insomma la cura del cibo e il cibo come cura.


Emma Ansovini
volontaria della mensa