Un appuntamento con il mondo

“Amsalah, niente musica oggi?”. I ragazzi curdi che arrivano in gruppo alla mensa mi chiamano così – nella loro lingua significa “pelato” – e conoscono la mia piccola fissazione: metto sempre un po’ di musica, preferibilmente reggae, a fare da sottofondo alla fila che si forma per mangiare. Mi sembra che così si sciolga un po’ la tensione, qualcuno riesce anche a ballare.
Mettersi in fila per un pasto è una situazione che alcuni vivono con imbarazzo e umiliazione. Per i ragazzi curdi iracheni e afgani, che arrivano in gruppi numerosi, è più facile: sono giovani, a volte giovanissimi (anche 14, 15 anni) e il pasto è un’occasione per scherzare tra loro e con noi. E si organizzano: già da qualche mese un giovane afgano si siede sulla panca di marmo davanti alle docce e taglia i capelli, gratis, a tutti. A volte rimane lì anche due o tre ore. Per chi è solo, e magari non è più giovane, è diverso: molte volte ho pensato a come si debbano sentire a stare lì in fila davanti a me, che per età potrei essere loro figlio.
Essere costretti a chiedere di fare una doccia o di mangiare è una violenza che fanno a se stessi, al loro orgoglio e alla loro dignità. Non è raro che in questa situazione venga fuori l’aggressività e noi operatori dobbiamo essere in grado di gestirla, con l’equilibrio che viene solo dall’esperienza. Il contatto spesso è fugace: i curdi iracheni e gli afgani non si trattengono a lungo e in questi anni il flusso di arrivi è rimasto costante. Rispetto agli anni passati però sono aumentati gli arrivi dall’Africa (soprattutto Eritrea, Etiopia, Togo) e ultimamente anche dal Kossovo: in genere si tratta di persone che si fermano in Italia e che accedono con maggiore continuità ai nostri servizi. Quasi tutti ricevono la loro posta al Centro Astalli e spesso continuano a passare a ritirarla anche a distanza di molto tempo. Questo offre anche l’occasione per raccontarci le novità della loro vita: qualcuno “ce la fa”, altri continuano a restare ai margini, senza punti di riferimento. Ho visto tante persone arrivare piene di speranza e di energia e poi cambiare, fino a perdere del tutto il contatto con la realtà. La solitudine e l’isolamento hanno la meglio su chi è più fragile, o semplicemente più sfortunato degli altri. Ma tutti vivono il disagio di sentirsi invisibili, non considerati. Forse è per questo che alcuni sono disposti a spendere tutti i soldi che hanno per comprare un telefonino nuovo o un paio di scarpe di marca: cercano dei segni tangibili di appartenenza, per essere accettati da una società che fa finta di non vederli.

Riccardo Rocchi