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GEOGRAFIA
L’Eritrea fa parte della regione del Corno D’Africa. Il Paese confina a nord e a nord-ovest con il Sudan, a sud con l’Etiopia e Djibouti. Il Mar Rosso bagna le coste del nord e del nord est. La superficie del Paese è di 117.400 km2, ripartita in tre zone: la costa, per lo più pianeggiante e desertica; la zona centrale, montuosa e fertile e l’area occidentale, pianeggiante. Il cuore del Paese è costituito da un elevato altopiano, noto come Acrocoro etiopico, che occupa circa la metà del territorio presentando un’altitudine media di quasi 2000 metri. Nella parte settentrionale dell’altopiano, chiamata Rift Valley, si trova il lago Tana da dove nasce il Nilo Azzurro, uno dei due grandi affluenti del Nilo.
La diversità territoriale, oltre a determinare un clima diverso in ogni area del Paese, costituisce anche il contesto ideale per una fiorente fauna e flora. Il clima è temperato nelle zone montuose e caldo nei bassi piani. I mesi più piovosi sono quelli che vanno da giugno a settembre ma piogge frequenti possono verificarsi anche tra febbraio e marzo.
ECONOMIA
L’economia eritrea si basa principalmente sull’agricoltura e in tale settore è occupato circa dall’80% della popolazione. Nonostante ciò, questo settore è poco remunerativo e contribuisce a una piccola parte del Prodotto Interno Lordo (PIL) del Paese. L’agricoltura fornisce prodotti per l’esportazione quali cotone, frutta, vegetali, pellame e carne. Al raggiungimento dell’indipendenza, nel 1993, il Governo aveva promesso l’istituzione di un’economia di mercato e l’inizio di un processo di privatizzazione. Queste promesse sono state di gran lunga disattese e oggi il Governo controlla completamente il settore economico.
La guerra con l’Etiopia, sviluppatasi tra il 1998 e il 2000, ha danneggiato gravemente l’economia del Paese. Nel 1999, la crescita del Prodotto Interno Lordo era stata pari a zero mentre l’anno successivo questo indicatore aveva fatto registrare perfino un valore negativo, con una crescita pari a -12,1%. Ulteriore effetto del conflitto è stata la perdita e/o il danneggiamento di moltissime proprietà, case e bestiame e il calo della produzione agricola del 62%.
Nonostante gli attriti con i Paesi confinanti, l’Eritrea ha sviluppato nuove infrastrutture, proceduto ad asfaltare nuove strade, migliorare i porti e ricostruire le strutture danneggiate dalla guerra. Il Governo ha mantenuto un forte controllo sull’economia: l’utilizzo di monete straniere è stato fortemente limitato come anche la diffusione delle imprese estere. Gli investimenti stranieri e locali sono stati scoraggiati da una serie di regolamenti arbitrari ed estremamente complessi. L’economia del Paese dipende fortemente dalle rimesse degli eritrei emigrati all’estero.
Lo sviluppo dell’agricoltura è ostacolato dalla scarsità delle piogge e dalla mobilitazione degli agricoltori, sottratti a questo settore e messi a servizio dell’industria militare. Questa circostanza ha fatto sì che negli ultimi anni l’Eritrea non sia stata in grado di far fronte al fabbisogno alimentare della propria popolazione. Il Governo ripone tutte le speranze in progetti internazionali per lo sfruttamento delle risorse minerarie. Il futuro economico dell’Eritrea dipende dalla capacità della nazione di gestire le questioni sociali come il tasso di alfabetizzazione, la disoccupazione e, soprattutto, la volontà del governo di sviluppare una reale economia di mercato
INDICI DEMOGRAFICI E DI SVILUPPO
CONTESTO STORICO E SOCIO-CULTURALE
CONTESTO STORICO
Tra il 1960 e il 1990 lo Stato dell’Eritrea fu sconvolto da uno dei più duraturi conflitti del continente africano. Nell’arco di questi trent’anni furono 500.000 i rifugiati che cercarono riparo nel vicino Sudan e più di 100.000 quelli che si diressero verso altri Paesi in cerca di pace e sicurezza.
Nel 1993, anno che segnò la fine della guerra civile e il raggiungimento dell’indipendenza, emersero forti speranze che questa triste tendenza si potesse invertire e che l’Eritrea potesse finalmente procedere verso la pace e la democrazia. Queste speranze vennero fortemente disattese: non solo il conflitto armato continuò ad essere una costante nella vita del Paese, ma si instaurò un Governo totalitario che represse ogni speranza democratica.
Colonizzazione e lotta per l’indipendenza (1889- 1993)
Nel 1889 l’Eritrea venne dichiarata ufficialmente colonia italiana e rimase sotto il dominio italiano fino al 1941.
Nel 1941, le forze britanniche invasero l’Eritrea e, nel 1949, questa assunse lo status di territorio in amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite, amministrata dalla Gran Bretagna.
Nel 1950, le Nazioni Unite autorizzarono la costituzione della Federazione di Etiopia e di Eritrea nella quale quest’ultima avrebbe costituito un territorio federale autonomo sotto il dominio della corona etiope. Ben presto gli equilibri si sbilanciarono a favore dello Stato etiope, rendendo Addis Abeba il centro degli affari economici e politici e provocando una progressiva marginalizzazione e un crescente impoverimento dell’Eritrea.
Nel 1962 gli equilibri della Federazione si ruppero totalmente: Haile Selassie (imperatore dell’Etiopia) procedette all’annessione dell’Eritrea, provocando la formazione di un movimento indipendentista e l’inizio di una guerra per l’indipendenza che avrebbe caratterizzato le relazioni tra i due Stati per i successivi trent’anni.
Nel 1993, dopo trent’anni di sanguinosi scontri con il Governo etiope del Derg (governo militare di ispirazione comunista), all’indomani della deposizione di Mengistu Haile Mariam, il Fronte per la Liberazione del Popolo Eritreo (principale esponente del movimento nazionalista) ottenne l’indizione di un referendum con il quale il popolo eritreo poté esprimersi al riguardo dell’indipendenza del Paese. Le votazioni, tenutesi nell’aprile 1993, registrarono il 99,3% di voti in favore dell’indipendenza che fu ufficialmente proclamata nel maggio successivo.
Conflitto con l’Etiopia (1998 – 2000)
I buoni rapporti che, all’indomani dell’indipendenza, caratterizzarono le relazioni tra l’Etiopia e l’Eritrea, nel corso degli anni Novanta, subirono un progressivo deterioramento.
Principali fattori di questa involuzione furono tre questioni che vedevano contrapporsi gli interessi dei due Stati:
- la demarcazione dei confini e, in particolare, il possesso della città di Badme;
- l’introduzione da parte dell’Eritrea di una propria valuta
- l’accesso al porto di Assab – struttura situata in territorio eritreo – il cui uso in base ad un accordo concluso al momento della concessione dell’indipendenza, sarebbe avvenuto congiuntamente da parte dei due Stati.
Nel 1998, le tensioni tra i due Paesi giunsero all’apice dando vita ad un confronto armato durante il quale ciascuno Stato lamentava la violazione dei confini nazionali da parte dell’altro. Dopo due anni di conflitto, il 18 giugno 2000, si giunse all’Accordo di pace di Algeri che prevedeva il ritorno alle posizioni territoriali precedenti l’inizio delle ostilità, la creazione di una zona demilitarizzata di circa 25 km all’interno del territorio eritreo, l’invio di una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite e la demarcazione dei confini ad opera di un organismo indipendente: la Commissione sul confine Eritrea-Etiopia.
La questione di Badme
Nel settembre 2000, le Nazioni Unite istituirono l’UNMEE (United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea), che aveva il compito di monitorare il cessate il fuoco e sorvegliare la zona. Nel 2002, la Commissione annunciò la sua decisione sulla questione dei confini: la città di Badme, occupata dall’Etiopia durante il conflitto, venne assegnata all’Eritrea. Entrambi i Paesi dichiararono di accettare le conclusioni della Commissione ma, in realtà, in Etiopia, la mancata assegnazione della città di Badme provocò forte malcontento. Pur riconoscendo il valore della decisione della Commissione il Paese ne contestò subito alcuni aspetti pratici.
La questione di Badme provocò un irrigidimento delle relazioni tra i due Paesi. In particolare, l’Eritrea iniziò a temere di non vedersi riconosciuto il controllo reale del territorio assegnatogli, mostrando una certa delusione per la riluttanza manifestata dalla comunità internazionale nel far accettare all’Etiopia le conclusioni della Commissione. La prima conseguenza di questa mancanza di fiducia negli accordi presi fu l’inasprimento dell’atteggiamento eritreo nei confronti della missione delle Nazioni Unite della quale, a partire dall’ottobre del 2005, ostacolò fortemente le operazioni.
Alla fine del 2006, la Commissione comunicò che, in assenza di nuovi sviluppi, avrebbe proceduto autonomamente alla fissazione dei confini. All’avvicinarsi della scadenza dell’ultimatum, le tensioni tra i due Stati crebbero notevolmente senza riuscire a giungere ad uno sviluppo positivo.
Infine, nel novembre 2007, la Commissione si sciolse avendo solo determinato le coordinate per la demarcazione dei confini, ma non avendo provveduto ad alcuna delimitazione concreta.
Nel gennaio 2008, l’Eritrea dispiegò il proprio esercito lungo la zona demilitarizzata, spingendo la missione delle Nazioni Unite fuori da questi territori. L’Eritrea ritenne, infatti, che la demarcazione virtuale indicata dalla Commissione dovesse porre fine alla disputa circa la delimitazione dei confini, ragione per cui non vi era più alcun motivo che potesse giustificare la presenza sul proprio territorio delle truppe dell’UNMEE.
Nel luglio 2008, le truppe UNMEE e l’esercito etiope abbandonarono la regione.
Tra i due Stati iniziò una situazione di stallo: da una parte l’Etiopia ha continuato a mantenere il controllo della città di Badme, affermando che la demarcazione virtuale indicata dalla Commissione non potesse essere considerata vincolante. L’Eritrea, di contro, ha continuato a mantenere le truppe nella zona demilitarizzata chiedendo il rispetto di quanto stabilito dalla Commissione. Le relazioni tra i due stati sono rimaste tese, dopo che l’Etiopia aveva chiesto l’apertura di negoziati in anticipo rispetto all’implementazione della decisione della commissione sulla frontiera tra Etiopia ed Eritrea.
Il “costo umano” del conflitto
La situazione di tensione tra i due Paesi, prolungatasi per molti anni, ha avuto conseguenze disastrose sulle popolazioni dei due Stati: 85.000 i rifugiati eritrei che hanno cercato protezione in Sudan durante il conflitto del 1998 – 2000 e oltre un milione gli sfollati a causa dei combattimenti. Le tensioni che sopraggiunsero negli anni successivi hanno ulteriormente aggravato il costo umano del conflitto causando altri migliaia di sfollati, in maggioranza persone costrette ad abbandonare le proprie case situate all’interno della zona demilitarizzata.
Durante il conflitto del 1998-2000, particolarmente grave fu il trattamento riservato dall’Etiopia agli etiopi aventi origine eritrea: l’Etiopia, infatti, privò della nazionalità etiope circa 120.000 cittadini di origine eritrea e proceduto all’espulsione di oltre 70.000 persone.
La legge sulla cittadinanza allora in vigore in Etiopia stabiliva che il cittadino etiope dovesse rinunciare alla propria nazionalità qualora ne avesse acquisita un’altra. Secondo il Governo etiope, i cittadini di origine eritrea che avevano partecipato al referendum del 1993 sull’indipendenza dell’Eritrea avevano manifestato l’intenzione di voler rinunciare alla nazionalità etiope.
Durante lo stesso periodo, gli eritrei e gli etiopi di origine eritrea che non sono stati costretti a lasciare il Paese hanno subìto la confisca arbitraria e discriminatoria delle loro proprietà e restrizioni nell’accesso al lavoro, all’educazione, ai servizi sociali e alla libertà di circolazione.
La situazione degli etiopi (di origine eritrea) privati della propria nazionalità durante questo periodo ha trovato una soluzione solo alla fine formale del conflitto e tra il 2003 e il 2004, quando il Governo etiope ha emanato leggi che hanno definito chiaramente la questione dell’acquisizione e della perdita della cittadinanza etiope nonché i diritti degli stranieri residenti sul territorio.
Sfortunatamente questa vicenda ha favorito il formarsi di un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei cittadini eritrei presenti in Etiopia.
Il Governo di Isaias Afewerki
All’indomani dell’indipendenza, il partito del Fronte per la Liberazione del Popolo Eritreo, rinominatosi Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, assunse il potere e si trovò ad affrontare una sfida dal massimo impegno: costruire la nuova Eritrea dalle fondamenta. Nel 1993, il Governo procedette all’istituzione, mediante elezioni, di un Parlamento provvisorio, inclusivo di membri appartenenti ad ogni formazione partitica e, nel 1997, fu adottata una nuova Costituzione che ha introdotto un certo grado di pluralismo politico. Le norme costituzionali, tuttavia, non sono mai state applicate, in parte a causa dello scoppio del nuovo conflitto con l’Etiopia.
Nel corso degli ultimi vent’anni, i rapporti tesi con gli Stati confinanti offrirono scuse e pretesti per esercitare un Governo sempre più oppressivo. Il Presidente Isaias Afewerki ebbe una svolta autoritaria giungendo ad avere il pieno controllo del potere economico, politico, sociale e religioso del Paese. Il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia rimase l’unico partito ufficialmente riconosciuto, mentre il Parlamento provvisorio non si riunì più dal 2002. Inoltre, il settore giudiziario fu totalmente controllato dall’esecutivo e anche la stampa furono privati di qualsiasi autonomia.
Nel 2001, quindici membri del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, i cosiddetti G15, indirizzarono una lettera al Presidente Isaias Afewerki chiedendo il rispetto della Costituzione e l’indizione di elezioni multipartitiche. Il Presidente reagì ordinando l’arresto di undici dei firmatari del testo, annunciando che non sarebbe stata permessa la formazione di nuovi partiti politici e rinviando le elezioni ad una data indefinita. Dopo questo avvenimento, l’atteggiamento del Governo diventò sempre più sospettoso e numerosi furono gli arresti e le detenzioni di carattere politico.
Conflitto con Djibouti (2008)
Nel giugno 2008 una disputa, avente alla base la rivendicazione eritrea dell’area di Domueria, causò numerosi scontri tra l’esercito eritreo e quello di Djibouti. Nel gennaio 2009 Djibouti riportò le proprie truppe alle posizioni precedenti l’inizio delle ostilità, mentre l’Eritrea continuò a mantenere il suo esercito nel territorio straniero. Una svolta nelle relazioni tra i due Stati è avvenuta nel 2010, quando si giunse ad un accordo per sottoporre ad arbitrato internazionale la disputa sul confine comune. L’accordo di arbitrato fu siglato il 6 giugno 2010 dal presidente eritreo Isaias Afewerki e da quello di Djibouti, Ismail Omar Guelleh, grazie alla mediazione del Qatar.
Ultimi avvenimenti (2011-2023)
Nel marzo del 2011 l’Etiopia accusò l’Eritrea di aver inviato agenti lungo le frontiere per piazzare delle bombe e, per questo, minacciò di porre in essere tutte le misure necessarie per fermare l’aggressione da parte dell’Eritrea. Il mese successivo, inoltre, l’Etiopia ha, per la prima volta, apertamente dichiarato di voler supportare i gruppi ribelli dell’Eritrea nella lotta finalizzata a destituire il presidente Afewerki.
Dal mese di giugno al mese di settembre 2011, le condizioni della regione del Corno d’Africa si aggravarono a causa della peggiore siccità degli ultimi 50 anni.
A marzo del 2012, le truppe etiopi attaccarono le posizioni nel sud est dell’Eritrea, sostenendo che in quella zona venissero addestrati appartenenti a gruppi sovversivi. Intanto, nell’aprile del 2012, Afewerki apparve in TV per la prima volta dopo un mese di assenza per smentire le voci diffuse circa la sua probabile morte o una grave malattia. A luglio 2012 il Consiglio per i diritti umani dell’Onu nomina una speciale relatrice sui diritti umani in Eritrea, Sheila Keetharuth, ma l’Eritrea le rifiuta il visto d’entrata.
Il 21 gennaio 2013 soldati dissidenti occuparono per breve tempo la sede del ministero delle informazioni ad Asmara e chiesero la liberazione dei prigionieri politici. A febbraio 2013 l’allenatore e il dottore della nazionale di calcio chiesero asilo politico durante un torneo in Uganda; ad aprile un pilota militare, inviato in Arabia Saudita per reclamare un jet rubato da due ufficiali che avevano chiesto asilo, decise di imitare i due colleghi. A maggio 2013 ci fu un esodo di massa: Amnesty International rivelò che migliaia di prigionieri politici furono trattenuti nelle prigioni in condizioni atroci, senza un’accusa precisa (si calcola che nei 20 anni di potere di Afwerki i prigionieri politici siano stati almeno 10.000); Sheila Keetharuth, rappresentante speciale delle Nazioni Unite, rivelò che repressioni brutali, tra cui uccisioni extragiudiziali, hanno costretto alla fuga migliaia di persone. A dicembre 2013 uno studio presentato al parlamento europeo rivelò che, dal 2007, almeno 30.000 eritrei furono sequestrati, portati nel deserto del Sinai, torturati e poi rilasciati dopo il pagamento del riscatto. Il Governo eritreo smentì le accuse sul possibile coinvolgimento di propri funzionari.
A giugno 2014 il Consiglio Onu per i diritti umani diede il via a un’inchiesta (di un anno) sui diritti umani in Eritrea; l’accusa fu che il governo di Asmara fu invischiato in una lunga serie di abusi e che circa il 6% della popolazione fuggì dal paese; Asmara rigetta le accuse come infondate e dichiara che non coopererà. A novembre 2014 l’Agenzia Onu per i rifugiati rivelò un incremento drammatico nel numero degli eritrei che fuggirono dal proprio Paese verso l’Etiopia; molti di essi cercarono solo di sfuggire alla nuova campagna di arruolamento forzato messa in atto dalle forze armate. A novembre 2014 l’UNHCR fece sapere che fu registrato un forte aumento di persone in fuga da Eritrea ed Etiopia a causa della leva militare obbligatoria.
A giugno 2015 una relazione dell’ONU accusò il Governo dell’Eritrea di eseguire violazioni sistematiche dei diritti umani, che a sua volte respinsero le accuse ritenendo la relazione mossa da motivi politici. A novembre 2015 il Governo introdusse delle nuove banconote, e mettendo fuori corso le vecchie, secondo alcuni critici a causa della necessità di frenare un fiorente mercato nero.
A maggio 2016 l’Eritrea risultò essere, per il nono anno consecutivo, il Paese con il più basso indice di libertà di stampa per i giornalisti. Nel mese di luglio del 2016 il Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani invitò l’Unione africana a indagare i dirigenti eritrei per presunti crimini contro l’umanità.
A giugno 2017 salì la tensione tra Gibuti e l’Eritrea dopo il ritiro delle truppe militari del Qatar dalla zona di confine contestata. A giugno 2017 la capitale Asmara venne inserita tra i siti archeologici patrimonio dell’umanità dall’Unesco.
Ad aprile 2018 venne nominato primo ministro l’etiope Abiy Ahmed, uomo che mostrò fin da subito di avere una marcia in più. Infatti, fin dall’inizio del suo mandato si adopera per porre fine allo stato di emergenza che perdurava da mesi, propose riforme economiche e sociali e fece liberare centinaia di prigionieri politici denunciando l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza governativi. Inoltre, rinunciò alle rivendicazioni territoriali su Badme, elemento determinante per l’avvio e la conclusione dei negoziati di pace.
Il 9 luglio 2018 il premier etiope Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afwerki firmarono un accordo di pace tra i due Paesi, ufficialmente in guerra dal 1998. Fu concordata la riapertura della rotta aerea diretta tra le due capitali, del commercio bilaterale e delle rispettive ambasciate. Fu annunciata anche la ripresa delle linee telefoniche per la prima volta negli ultimi due decenni.
Il 30 luglio 2018 Eritrea e Somalia firmarono un accordo che ristabilì le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, dopo oltre vent’anni di tensione.
Secondo alcune stime, numerosi eritrei, 30.000 solo tra settembre e ottobre, colsero l’occasione per sfuggire alla dittatura e al servizio nazionale indefinito verso l’Etiopia, che ospitava in quel momento circa 100.000 rifugiati eritrei. A seguito dell’esodo della popolazione eritrea, tra la fine del 2018 e il 2019 il Governo del Paese decise di chiudere progressivamente i confini con l’Etiopia.
A novembre 2018 il Consiglio di Sicurezza ONU revocò le sanzioni in vigore contro l’Eritrea dal 2009 per il suo presunto sostegno ai jihadisti di Al-Shabaab. Con la risoluzione terminarono l’embargo sulle armi, il congelamento dei beni e il divieto di viaggi.
Nel corso dell’anno successivo all’accordo di pace le frontiere tra i due paesi videro nuove chiusure progressive da parte di Asmara non del tutto chiare, giustificate con l’instabilità politica dell’Etiopia.
Nel 2019, l’Unione Europea attraverso il Fondo fiduciario europeo di Emergenza per l’Africa in Eritrea finanziò con 20 milioni un progetto che prevedeva il miglioramento della rete stradale in Eritrea e in particolare il ripristino della strada principale Nefasit-Dekemhare-Senafe-Zalembessa, per facilitare il trasporto di merci tra Etiopia e i porti eritrei, ma anche il collegamento verso il confine con la città di Kassala in Sudan e l’Etiopia. Tuttavia, a partire da aprile 2019, diverse organizzazioni umanitarie, in particolare la Fondazione di difesa dei Diritti Umani per gli eritrei, denunciarono il fatto che molti lavoratori, impiegati nel cantiere, furono costretti al servizio militare obbligatorio e dunque, sottoposti al lavoro forzato. Infatti, nonostante la pace, i mesi che seguono continuarono a vedere una sistematica violazione dei diritti in Eritrea, con la detenzione senza processo di prigionieri politici, il servizio militare o civile forzato per uomini e donne (con un salario basso e spesso in condizioni abusive) e restrizioni legati alla libertà di espressione e di religione. Per queste ragioni, ogni mese migliaia di giovani dell’Eritrea si avventurarono in lunghi viaggi migratori alla ricerca di situazioni migliori. Inoltre, a settembre del 2019, il Comitato per la Difesa dei Giornalisti (Committee to Protect Journalists – CPJ), con sede negli USA, rilasciò un report che vide l’Eritrea come paese peggiore al mondo per censura e libertà di stampa.
Tali accuse non impedirono all’Unione di valutare l’invio di ulteriori fondi, decisi a dicembre 2019, destinati all’Eritrea, continuando di fatto a finanziare un sistema di coscrizione forzata che le Nazioni Unite hanno descrissero come “equivalente alla schiavitù”. Infatti, nonostante l’Unione avesse ammesso di non avere un controllo reale sui progetti realizzati in Eritrea, furono erogati ulteriori 95 milioni, con la giustificazione che tale finanziamento fosse volto all’acquisto di materiale e attrezzature per affrontare la riabilitazione delle strade e non al pagamento della manodopera. La scelta dell’Unione è stata quella di erogare finanziamenti senza subordinarli alle garanzie di riforme democratiche.
Il 7 gennaio 2020 ebbe inizio una nuova alleanza regionale, guidata dall’Arabia Saudita, all’interno di uno degli scacchieri più delicati per gli equilibri mondiali. In particolar modo la coalizione fu composta da: Arabia Saudita, Sudan, Gibuti, Somalia, Eritrea, Egitto, Yemen e Giordania. Contrapposto all’altro blocco formato da: Turchia, Iran e Qatar. Gli otto paesi sopra citati firmarono la carta costitutiva del Consiglio degli stati arabi ed africani che si affacciano sul Mar Rosso e il Golfo di Aden. Uno degli obiettivi primari della carta costitutiva fu quello della sicurezza. Questo fine in particolare, gli fece guadagnare il supporto europeo, nonostante quest’alleanza fosse nata in un momento molto delicato per diversi paesi dell’Africa settentrionale/orientale e del Medio Oriente in relazione alle dinamiche con l’Europa e gli Stati Uniti.
Il 27 gennaio 2020, il presidente eritreo, Isaias Afwerki, quello somalo, Mohamed Abdullahi Farmaajo, e il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, per un summit tripartito in cui definirono un piano di azione comune per il 2020. Le tre nazioni stabilirono di consolidare ed espandere le loro relazioni nel Corno d’Africa. In particolare, i tre punti principali fissati dal piano d’azione comune per il 2020 includono: 1) il consolidamento della pace, della stabilità e della sicurezza; 2) la promozione dello sviluppo sociale ed economico; 3) l’ampliamento degli sforzi per rafforzare l’effettiva cooperazione regionale. Sul fronte della sicurezza, i tre leader formularono un piano globale per combattere e neutralizzare le minacce comuni da affrontare, tra cui terrorismo, traffico di armi, di esseri umani e di droga.
Durante il mese di marzo del 2020, alcuni rapporti riportarono che l’Egitto e l’Eritrea aveva stipulato un accordo, volto a stabilire una base navale egiziana sull’isola di Nora. Infatti, la posizione dell’Eritrea, all’ingresso meridionale del Mar Rosso, rappresentò una caratteristica altamente strategica. I crescenti interessi internazionali e la forte competizione intorno all’area del Mar Rosso, aumentarono il desiderio e la volontà del Cairo e di Riad di coordinarsi per garantire la sicurezza marittima della regione. A gennaio, gli sforzi sauditi di rafforzare l’egemonia nel Golfo furono raggiunti grazie alla firma di un accordo per la creazione del Consiglio degli Stati arabi e africani confinanti con le aree in questione.
Il 3 maggio 2020 il presidente eritreo Isaias Afeworki si recò in Etiopia per una visita ufficiale della durata di due giorni e al suo seguito, il ministro degli esteri Osman Saleh e Yemane Gebreab, nonché consigliere presidenziale e garante del partito unico al potere, il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (Pfdj). I due motivi principali di quest’incontro erano: discutere del contrasto alla pandemia Covid-19 e l’altro, la lotta all’invasione delle locuste. Per quanto riguarda il contrasto alla pandemia, il governo eritreo fu molto chiaro e determinato sulla sua strategia: bastare a sé stessi. L’eritrea, infatti, fu l’unico paese africano ad aver rifiutato il materiale sanitario offerto dal magnate cinese Jack Ma (fondatore e presidente del consiglio di amministrazione del controverso e discusso Alibaba, l’equivalente asiatico di Amazon). La strategia del presidente Isaias Afeworki secondo molti però fu quella di non comunicare i numeri reali dei contagiati alla comunità internazionale.
Dopo una lunga crisi sanitaria causata dalla pandemia da Covid-19, dal mese di novembre 2020 scoppiarono delle ostilità nella regione del Tigray in Etiopia, coinvolgendo Eritrea e Sud Sudan, provocando migrazioni di massa. In particolare il 4 novembre il primo ministro Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace lo scorso anno, scatenò una campagna militare nella regione del Tigray con l’obiettivo dichiarato di spodestare il partito al governo del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF), che si era assunto la responsabilità degli attacchi missilistici su Asmara, dando come giustificazione il supporto militare che l’Eritrea starebbe dando all’Etiopia nella campagna contro la regione. Fu un conflitto sanguinoso; rapimenti, violenze e arresti perpetrati contro rifugiati eritrei sulla base dell’affiliazione percepita a una o all’altra delle parti belligeranti. Centinaia di eritrei furono stati arrestati nello Scirè.
Nel mese di marzo 2021, il governo etiope si trovò a far fronte alle crescenti pressioni per il ritiro delle truppe dalla regione settentrionale del Tigray in un’area assediata che ora affronta una crisi umanitaria. Il segretario di Stato americano Antony Blinken affermò che in alcune parti del Tigray è avvenuta una vera e propria “pulizia etnica”.
Nel mese di giugno 2021, dopo sette mesi di sanguinoso conflitto, l’Eritrea iniziò a ritirare le sue truppe dal Tigray. Il governo di Asmara prese la decisione su richiesta ufficiale arrivata dalle autorità di Addis Abeba. Il ritiro era già stato annunciato, ma Eritrea ed Etiopia avevano a lungo negato la presenza di truppe eritree sul territorio etiope. La regione da tempo era teatro di numerose crimini contro l’umanità perpetrate a danno dei civili. I governi di Etiopia ed Eritrea furono accusati di avere responsabilità nelle violenze generalizzate dei diritti umani.
Le truppe eritree negarono sempre ogni coinvolgimento con gli attacchi contro i quattro campi profughi dell’Unhcr, abitati principalmente da eritrei fra dicembre 2020 e inizio 2021. A seguito di questi attacchi furono deportate in Eritrea circa 10mila persone. Furono compiuti numerosi massacri di civili e stupri di gruppo nella regione del Tigray, episodi imputati alle truppe asmarine e denunciati da Amnesty International e Human Rights Watch. Il governo di Addis Abeba definì il conflitto un’“operazione di polizia interna” e respinto ogni mediazione e internazionale e bloccato gli aiuti umanitari.
Il conflitto ebbe una nuova fase critica nel luglio 2021, quando le Forze di difesa del Tigray (TDF), avanzarono ottenendo importanti successi sul piano militare, rischiando così di coinvolgere anche il territorio eritreo. La risposta di Addis Abeba vede l’inasprirsi di arresti indiscriminati di tigrini. Inoltre, alla fine di agosto, l’Eritrea schierò nuove truppe nella regione del Tigray nell’intenzione di prevenzione da eventuali attacchi e di collaborazione al mantenimento di un’Etiopia unita.
Il 12 novembre 2022 il capo dell’esercito federale etiopico, Berhane Jula e il comandante dei combattenti armati del Tigray, Tadese Woreda, firmarono a Nairobi un accordo per il cessate il fuoco e il disarmo nella regione tigrina. L’accordo sanciva il riconoscimento ufficiale da entrambe le parti di un’unica forza di difesa nazionale. L’esercito del Tplf si impegnò, inoltre, a cedere gli armamenti leggeri e pesanti entro 30 giorni a partire dal 15 novembre qualora tutte le forze militari estranee presenti in Tigray si ritirassero dalla regione, comprese quelle eritree. Dopo l’inizio del conflitto, le milizie dei governi regionali di Afar e Amhara, i cui territori furono invasi dall’esercito tigrino, si unirono all’esercito federale etiope insieme alle forze militari eritree. La decisione di Asmara di schierarsi accanto all’esercito federale fu dovuta all’accrescersi negli anni di un forte risentimento nei confronti del Tplf che guidò la guerra di confine contro l’Eritrea, tra il 1998 e il 2000, provocando oltre 100mila vittime. Tuttavia sia le milizie Afar e Amhara che i rappresentanti eritrei non presero parte ai negoziati di pace di Nairobi e il Tplf nel frattempo accusò i militari eritrei di aver commesso crimini contro i tigrini anche dopo la firma dei trattati di pace. Sul rispetto di questo accordo si espressero a favore anche gli Stati Uniti che minacciarono delle pesanti sanzioni in caso di violazioni.
L’accordo sul disarmo prevedeva la cessazione della mobilitazione militare da entrambe le parti, la protezione dei civili da parte dell’esercito di Addis Abeba, il libero accesso degli aiuti umanitari, la dipartita di tutte le forze straniere e il disarmo degli armamenti pesanti del Tplf insieme al ripristino dei servizi sociali in tutto il Tigray, in particolare scuole, ospedali, elettricità, internet servizi bancari. Le due parti si impegnarono inoltre a favorire una narrazione positiva dei media, al fine di evitare l’incitamento all’odio da parte della propaganda. Addis Abeba annunciò delle linee guida su come i giornalisti dovessero pronunciarsi in merito all’accordo di pace.
Nel gennaio 2023 le truppe eritree continuarono la loro ritirata dalla regione del Tigray varcando il confine tigrino-eritreo della città di Sheraro. Il ritiro dell’esercito di Asmara soddisfò una delle principali condizioni stabilite nell’accordo di pace.
L’accordo di pace era concorde agli ultimi sviluppi militari della guerra con il conseguente crollo sostanziale del Tplf. La guerra nel Tigray provocò in due anni oltre 600.000 vittime, legate al conflitto in modo diretto o indiretto, e più di 2 milioni di sfollati interni. Il conflitto lasciò in eredità una crescente precarietà del Corno D’Africa, già alle prese con elevati livelli di povertà, instabilità politica e crisi ambientale. Le relazioni tra gli Stati di quest’area furono profondamente influenzate dal conflitto a causa del loro coinvolgimento in termini di appoggi diplomatici e militari e di prese di posizioni avverse o favorevoli al governo di Addis Abeba. La tenuta degli accordi di pace in Etiopia dipendeva anche da come Asmara decideva di porsi rispetto all’accordo siglato da Addis Abeba con il Tplf.
Nel Report “Today or tomorrow, they should be brought before justice” pubblicato il 5 settembre 2023 da Amnesty International, emersero le accuse nei confronti delle Forze di difesa eritree (Fde) per aver commesso crimini di guerra nella regione etiope del Tigrè, anche dopo l’accordo di pace siglato nel novembre 2022 tra il governo federale dell’Etiopia e il Fronte popolare di liberazione del Tigrè. Nel rapporto vennero attribuiti ai soldati delle Fde, alleati col governo federale etiope, violenze di varia natura come stupri, riduzioni in schiavitù sessuale, esecuzioni extragiudiziali e saccheggi commessi nella regione del Tigrè. Testimonianze dirette dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime denunciarono esecuzioni extragiudiziali di 24 civili da parte della Fde. Le donne vittime di stupro e di schiavitù sessuale riportarono numerose ferite senza ricevere alcuna cura. Tali violenze potevano essere considerate parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile e pertanto crimini contro l’umanità. I responsabili di queste efferate violenze, commesse al nord dell’Etiopia al confine con l’Eritrea nella località di Kokob Tsibah e Mariam Shewito, furono riconosciuti dalle divise indossate e dal dialetto parlato.
Contesto socio-culturale
La popolazione eritrea comprende nove principali gruppi etnici. Il gruppo più numeroso è rappresentato dai Tigrini con una percentuale del 50%, poi ci sono i Tigré (30%), i Saho (4%), gli Afar (4%), i Kunama (4%), i Bilen (3%), e altri (5%).
La maggior parte della popolazione eritrea parla lingue derivanti dalla famiglia semitica o cuscitica.
I Tigrini e i Tigrè, che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione, parlano due idiomi differenti, ma tra di loro comprensibili. Il tigrino e l’arabo sono le lingue che più spesso si utilizzano per le relazioni commerciali e quelle ufficiali. Nelle zone urbane l’inglese è molto diffuso ed è la lingua parlata nelle scuole secondarie e nelle università.
È possibile che alcuni eritrei conoscano la lingua amarica (principale lingua dell’Etiopia). Durante il periodo di occupazione etiope dell’Eritrea, infatti, il Governo di Addis Abeba lese delegittimò i diritti degli eritrei anche imponendo l’amarico come lingua del Governo, dell’educazione e del commercio. Tuttavia, l’amarico non è una lingua ammessa nell’Eritrea post-indipendente. Ad esempio, il Governo eritreo ha proibito le canzoni in lingua amarica.
Gruppi etnici
- Tigrini: (zigrini) vivono nell’altopiano centrale e meridionale, la maggior parte di essi è dedita all’agricoltura. I tigrini sono in maggioranza cristiani appartenenti alla Chiesa ortodossa, con minoranze di cattolici e protestanti. La restante parte dei tigrini è di religione islamica sunnita. Riferendosi a sé stessi, alla loro lingua e cultura, usano il termine habesha, che fu anglicizzato nella parola Abissinia.
- Tigré: vivono nella regione del Mar Rosso settentrionale, Anseba e Gash Barka. Tradizionalmente essi conducono un tipo di vita nomado-pastorale, simile a quello dei loro vicini cuscitici del nord, i beja, stabilendo tra l’altro con essi delle relazioni. I tigrè si dedicano all’agricoltura coltivando granturco, sorgo e altri cereali per diversi mesi all’anno. Tradizionalmente i gruppi Tigrè hanno una struttura sociale gerarchica con a capo una piccola aristocrazia nota come shemagille, che governa la maggioranza dei tigré.
- Saho e Afar: gruppi etnici discendenti da una popolazione di lingua cuscitica proveniente dall’altopiano orientale che, dedicandosi alla pastorizia si sono, nel tempo, adeguati al terreno arido dei bassopiani. I saho abitano lungo la costa e nell’entroterra nei pressi della città di Massawa e si spostano seguendo il corso delle stagioni. Nei secoli hanno stabilito rapporti di reciprocità con i tigrini della zona, questo ha gradualmente portato all’insediamento di gruppi di saho fra i tigrini dell’altopiano cosicché, attualmente, esistono diversi villaggi ad Akele-Guzai dove saho e tigrini vivono insieme.
I saho degli altopiani sono diventati agricoltori, riprendendo la tradizione portata avanti dagli antenati prima di scendere verso la costa migliaia di anni fa.
Un’attività prestigiosa che caratterizza questo gruppo è l’allevamento di api e la produzione di miele. I saho sono organizzati in una struttura sociale patriarcale, divisa in sette sottogruppi ognuno dei quali ha un capo tradizionale chiamato rezanto.
Gli Afar vivono in una regione del tutto inospitale: la depressione Dancala e lungo la costa del Mar Rosso fino a Djibuoti e oltre. La maggior parte dell’area è caratterizzata da un deserto arido. Gli Afar sono pastori e si muovono con il loro bestiame (cammelli e capre) vivendo in capanne realizzate con rami intrecciati coperti di stuoie e pelli facilmente trasportate da cammelli. I cammelli vengono anche utilizzati per trasportare sugli altopiani il sale che viene estratto dopo un lungo processo di essiccazione, mantenendo vivo, in tal modo, un commercio che dura da secoli.
Nelle piccole oasi del territorio Afar si coltivano mais e tabacco. In alcune aree dell’altopiano gli Afar vivono stabilmente in case di pietra o grotte scavate nella roccia.
Lungo la costa, inoltre, alcuni sono impegnati nella pesca e molti lavorano come marinai su navi mercantili. La struttura sociale degli Afar è di tipo patriarcale.
- Kunama: stanziati nella zona di Gash Barka, nel bassopiano occidentale al confine con il Sudan. La principale fonte di sostentamento dei Kunama è il bestiame ma si dedicano anche alla coltivazione di diverse varietà di cereali e vegetali e alla pratica della caccia. La struttura sociale di questo gruppo etnico è di tipo patriarcale: gli anziani godono di un grande rispetto e prendono le decisioni più importanti.
I giovani maschi, raggiunta l’adolescenza, sono sottoposti ad alcuni riti d’iniziazione e durante questo periodo studiano, in particolare, le tecniche della caccia. Una volta uomini, sono considerati pronti al matrimonio e liberi di scegliere la propria sposa. Rinomati danzatori, i Kunama hanno sviluppato più di 25 tipi di danze che spesso rappresentano eventi storici.
- Rashaida: rappresentano l’ultimo gruppo semitico partito dalla penisola arabica e arrivato in Eritrea, nella metà del secolo scorso.
La loro terra d’origine era l’Hijaz, dove una battaglia persa con altri gruppi arabi li obbligò ad attraversare il Mar Rosso fino ad arrivare nel Deserto Nubiano, che si estende lungo il confine tra l’Eritrea e il Sudan. I Rashaida vivono allevando cammelli, sono organizzati in clan su base patriarcale, si sposano solo tra di loro e questo ha permesso loro di mantenere intatta la propria cultura.
- Beja e Bileni: il gruppo dei Beja, conosciuto dai greci come “blemmyes”, vive sulle coste del Mar Rosso da migliaia di anni. La maggior parte della popolazione Beja è semi-nomade e dedita alla pastorizia. I Beja sono, inoltre, rinomati allevatori di cammelli. La maggior parte degli appartenenti a questa etnia vive nel deserto Nubiano, che si estende lungo il confine fra Sudan ed Eritrea, il resto vive nella più fertile area a sud-est di Agordat dedicandosi all’agricoltura. Le persone sono organizzate in gruppi in base alla discendenza patriarcale e le donne sono escluse da tutte le attività socio-politiche. In alcune aree la lingua dei Beja viene sostituita dal tigrè, perché i ricchi Beja sono soliti sposare donne tigré ed è a queste ultime che si devono i cambiamenti nell’uso della lingua in famiglia.
A Sud del territorio abitato dai Beja, intorno alla città di Keren, vivono i Bileni che formano una piccola enclave che parla la lingua cuscitica. Hanno una tradizione contadina e la loro struttura sociale è organizzata per gruppi di parentela.
Come la lingua beja, il bilen, la lingua parlata da questo gruppo, è stata lentamente rimpiazzata dal tigré e dal tigrino in seguito ai matrimoni, alle relazioni sociali ed economiche tra questi gruppi e, in qualche misura, dall’arabo tramite l’insegnamento nelle scuole.
- Nara: gruppo etnico originariamente vicino a quello dei Kunama, la sua economia si basa sull’agricoltura e sull’allevamento. A metà del 1800 gli egiziani li convertirono all’Islam e la struttura familiare passò da matriarcale a patriarcale.
Ordinamento dello Stato
La Costituzione eritrea, ratificata nel 1997, prevede l’attuazione del pluralismo politico e la presenza di un Parlamento eletto composto da 150 seggi. Il Parlamento dovrebbe eleggere a maggioranza il Presidente, scegliendolo tra i suoi membri. Tuttavia, come già precisato, il sistema previsto dalla Costituzione non ha mai trovato attuazione. Le elezioni previste nel 2001 sono state posticipate in data indefinita. L’Assemblea Nazionale Transitoria è composta interamente da membri del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, il partito che sostiene il Presidente Afewerki.
Nel 2004 si sono tenute le elezioni per le assemblee regionali, ma queste sono state completamente manipolate e controllate dal partito al potere e non hanno permesso un libero esercizio del diritto di voto da parte della popolazione.
Il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia e l’esercito rappresentano le sole istituzioni politiche realmente operanti in Eritrea, entrambe strettamente subordinate al potere del Presidente. La formazione di altri partiti politici è proibita, ma una seria minaccia alla dittatura di Isaias Afwerki è da sempre stata il Tigray People’s Liberation Front (TPLF). Difatti, il coinvolgimento dell’Eritrea nella guerra civile etiope è stato deciso col fine specifico di eliminare tale avversario politico. La vittoria del Tigray ha poi dato l’opportunità ai movimenti democratici eritrei di esercitare un ruolo costruttivo nella campagna elettorale per porre fine al governo di Afwerki e dar vita ad una vera pace con l’Etiopia. La sconfitta eritrea subita nel Tigray ha dunque rivitalizzato l’opposizione eritrea che si è riunita nell’obiettivo di rimuovere il regime dittatoriale e far sì che pace e giustizia prevalgano in Eritrea.
Servizio militare
Il servizio militare in Eritrea viene istituito con la legge n. 82/95 (PROCLAMATION N. 82/95). Essa stabilisce l’obbligatorietà del servizio militare nazionale per tutti i cittadini tra i 18 e i 50 anni, indipendentemente dal sesso.
Il servizio militare si distingue in “servizio attivo” e “servizio di riserva”. Il servizio nazionale “attivo” consiste in 6 mesi di addestramento militare e in 12 mesi durante i quali il cittadino è chiamato a svolgere attività di tipo militare o a prestare servizio per progetti nazionali di sviluppo. Nella maggior parte dei casi si tratta di lavori forzati nell’ambito di progetti statali come la costruzione di strade o lavori alle dipendenze di società gestite dall’élite di partito o dell’esercito.
Il “servizio di riserva” ha la funzione, invece, di rafforzare l’esercito regolare in caso di attacco o di invasione di truppe straniere, di difesa da attacchi interni alla sovranità dello Stato ecc…
Nei primi anni successivi all’indipendenza, coloro che venivano chiamati a prestare il servizio militare erano generalmente congedati dopo 18 mesi e lasciati liberi di tornare alle proprie professioni. Dal 2000 questo scenario è radicalmente cambiato e, sulla base di direttive governative decretanti lo stato di emergenza o di mobilitazione, i cittadini tra i 18 e i 50 anni sono stati chiamati a prolungare il periodo di svolgimento del servizio nazionale. In ultimo, nel 2002 un proclama governativo ha definitivamente esteso a tempo indeterminato la prestazione del servizio. Tale è rimasto malgrado la promessa fatta dal governo nel 2014 di porre fine al sistema di leva militare a tempo illimitato.
Conseguenza principale di questa politica è che tutti i cittadini eritrei sono tenuti a svolgere per buona parte della propria vita attività lavorative, prevalentemente militari, assegnate loro dallo Stato. Il controllo dell’attività lavorativa è svolto dall’esercito e la paga ricevuta corrisponde ad una somma minima mentre il restante denaro, che sarebbe normalmente percepito per quel tipo di attività, è destinato al Ministero della Difesa. Lo stipendio corrisposto per il lavoro prestato durante il servizio nazionale è al di sotto della cifra minima necessaria per la sopravvivenza nel Paese.
Il reclutamento ha inizio in età scolare: agli studenti è richiesto di completare l’ultimo anno di scuola superiore al campo di addestramento di Sawa. Bambini dell’età di 15-16 anni vengono presi durante alcune retate e portati a Sawa.
Anche le donne devono prestare obbligatoriamente il servizio di leva. Esse subiscono un trattamento particolarmente duro: numerosi sono i casi denunciati di molestie sessuali, violenze e stupri. Sotto la minaccia di essere assegnate ai compiti più duri o di non ottenere il congedo, le donne sono spesso vittime di torture, detenzioni, maltrattamenti e privazioni del cibo.
Migliaia di cittadini eritrei, in maggioranza giovani, scappano dal Paese a causa delle dure condizioni previste durante lo svolgimento del servizio militare, rischiando la detenzione, la tortura e nei casi più gravi una condanna a morte senza un processo. La maggior parte dei rifugiati eritrei si trova in Etiopia, ritenuta in passato uno dei Paesi più accoglienti con i rifugiati arrivando a ospitare quasi 900 mila persone in fuga da Sud Sudan, Somalia e, appunto, da Eritrea.
Da quando è scoppiata la guerra nella regione etiope del Tigray e le truppe eritree si sono alleate con quelle federali etiopi contro le forze regionali tigrine, l’Etiopia ha iniziato a non registrare più i profughi eritrei che sono finiti in un vero e proprio limbo giuridico.
La situazione presente nei campi profughi è diventata drammatica. Le condizioni di vita sono durissime: il cibo fornito dalle autorità etiopi non è sufficiente per sfamare tutti e chi è arrivato dopo il 2018 non ha documenti. Chi riesce a mettere da parte del denaro cerca di andare in Kenya, Uganda oppure in Sudan con l’intento di raggiungere la Libia e successivamente l’Europa attraverso il Mediterraneo.
Pene formali e informali applicate nei casi di diserzione o renitenza alla Leva
L’art. 37 del Proclamation 82/95 elenca una serie di sanzioni previste per coloro che cercano di evitare lo svolgimento del servizio militare. La disposizione generale (art. 37.1) prevista per qualsiasi violazione della legge 82/95 comprende la detenzione fino a due anni, l’applicazione di una multa, o la combinazione di entrambe le sanzioni. Le stesse pene sono applicate nei casi di deliberato ritardo nell’iscrizione ai registri militari o per aver evitato la leva mediante l’uso di metodi ingannevoli o di ostruzionismo (art. 37.4).
La legge regola anche il caso in cui una persona si rechi all’estero allo scopo di evitare lo svolgimento del servizio (art. 37.3). Se il coscritto fa ritorno in patria prima del compimento dei 40 anni sarà comunque obbligato a svolgere il servizio. Diverse le sanzioni rivolte a coloro che ritornano dopo il compimento dei 40 anni e entro il compimento dei 50: la legge prevede una pena detentiva di 5 anni, la perdita del diritto al lavoro o della licenza commerciale, l’impossibilità di ottenere un regolare visto di uscita dal Paese nonché la perdita dei diritti di proprietà sui terreni.
Un rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sottolinea che oltre alle sanzioni previste nel Proclamation 82/95, alcune violazioni delle leggi militari sono disciplinate e punite anche dal Codice Penale Transitorio. Quest’ultimo regola i casi di mancato inserimento o re-inserimento nei registri militari, tentativo di esenzione illegale dal servizio, diserzione, assenza non autorizzata, rifiuto di svolgere il servizio di leva o auto-ferimento allo scopo di essere dispensato dal servizio. Per questi casi le pene previste dal codice vanno da 6 mesi a 10 anni di carcere, a seconda della gravità dell’atto commesso.
Nei casi in cui la diserzione avvenga in periodi di mobilitazione e di emergenza nazionale, le pene per i disertori sono significativamente più severe e possono prevedere il carcere a vita o, nei casi più gravi, la pena di morte.
Se queste sono le pene formalmente previste dalla legge, numerosi rapporti delle organizzazioni internazionali sottolineano che i metodi di fatto applicati per punire i disertori o coloro che cercano di sfuggire al reclutamento violano in modo ancora più grave i diritti umani. Essi vengono sottoposti a tortura o a trattamenti inumani, a lunghi periodi di detenzione senza processo o costretti ai lavori forzati.
Si riporta, inoltre, che il Governo autorizza, nei casi di renitenza, l’uso mortale della forza. Le persone che si trovano in stato di detenzione per aver tentato la fuga durante il servizio militare spesso muoiono in conseguenza dei maltrattamenti subiti in carcere. L’uso della violenza è frequente anche durante le retate finalizzate ai reclutamenti in cui numerosi sono i casi di giovani e donne che vengono picchiati e uccisi. Nei confronti delle persone trovate nelle vicinanze dei campi minerari o nelle zone di frontiera, vige l’ordine di sparare a vista, giustificato dall’accusa di tentare la fuga dal territorio per sottrarsi al servizio di leva, di aver interferito con lo svolgimento delle attività minerarie o di aver cercato di allontanarsi dal Paese senza un regolare visto di uscita.
Infine, nel caso in cui il disertore o l’evasore non sia rintracciabile, le misure repressive sono prese nei confronti della sua famiglia: l’arresto o la coscrizione obbligatoria di membri della famiglia, l’imposizione di multe, il ritiro dei permessi per svolgere attività commerciali o la chiusura delle stesse (nel caso in cui siano a conduzione familiare) sono tutti metodi molto comuni.
Il governo ha continuato il suo servizio militare forzato senza limite di tempo senza riuscire a fermare gli abusi contro i coscritti, inclusi i bambini. Nel 2023 è stata attuata una nuova campagna di coscrizione di massa contro i presunti evasori della leva, i cui parenti hanno subìto pesanti punizioni collettive. Il servizio militare, nonostante le disposizioni legali ne abbiano limitato la durato a 18 mesi, rimane obbligatorio per tutti i cittadini eritrei tra i 18 e i 40 anni, sia uomini che donne. Chiunque risulti renitente alla leva viene arrestato dalla polizia. I funzionari governativi e le forze di sicurezza hanno sfrattato i parenti anziani, comprese donne e bambini, dalle loro case tagliando le razioni alimentari e detenendoli in modo arbitrario. La leva obbligatoria ha un impatto distruttivo sull’istruzione dei bambini. Nel campo militare di Sawa, gli studenti della Warsai Yekalo Secondary School sono stati costretti a fare il servizio militare prima ancora di aver concluso il percorso di studi alla scuola secondaria. L’obiezione di coscienza resto tutt’ora proibita.
Sistema penitenziario
Condizioni delle carceri
In Eritrea, le condizioni nelle carceri sono durissime e al limite della sopravvivenza. Le persone vengono spesso detenute per lunghi periodi in container sovraffollati, esposti al sole rovente del deserto e senza l’esistenza di vie di areazione o all’interno di celle sotterranee, buie e strette.
All’interno delle prigioni o dei centri di detenzione non viene fornita acqua potabile né cibo a sufficienza e manca un’adeguata assistenza sanitaria così, spesso, i detenuti muoiono di stenti o a causa della mancanza di cure.
Esistono numerosi centri detentivi non ufficiali, molti dei quali localizzati nei campi militari e utilizzati per recludere quanti vengono catturati durante gli arresti di massa e le retate.
I renitenti alla leva vengono, in genere, detenuti nel campo militare di Wi’a dove subiscono maltrattamenti. Alcuni di loro vi sono rimasti per quasi due anni prima di essere riassegnati alle loro unità.
Dalle testimonianze di ex prigionieri emerge che i maltrattamenti durante gli interrogatori e la tortura sono metodi comunemente utilizzati. Inoltre, non viene loro concessa la possibilità di incontrare i familiari e spesso, per rendere impossibili le visite dei parenti, i detenuti vengono trasferiti in strutture molto lontane dal luogo in cui risiedono. In alcuni casi, i parenti offrono case e proprietà come cauzione per il rilascio del proprio congiunto.
Quasi sempre i bambini non vengono portati in strutture specifiche ma in prigioni per adulti, alcuni insieme alle loro madri.
Pochissime le garanzie accordate: le detenzioni sono spesso effettuate in mancanza della formulazione di un’accusa o senza alcuna informazione rispetto al crimine imputato. È limitata anche la possibilità di accedere a una consulenza legale o a un giudice e sono diffusi gli arresti e le detenzioni arbitrarie.
Il Governo non indaga né monitora le condizioni nei centri di detenzione inoltre, in risposta all’emergenza sanitaria da Covid-19, le autorità eritree hanno aumentato i controlli pervasivi e le restrizioni di movimento sulla popolazione. Da marzo, il Governo ha proibito ai cittadini, ad eccezione di quelli impegnati in compiti “essenziali per sviluppo e sicurezza”, di lasciare le loro case, eccetto per procurarsi cibo e medicinali d’emergenza.
Molti oppositori politici negli anni sono vittime di retate di massa e arresti arbitrari senza avere la possibilità di avere accesso al servizio di consulenza legale e visite di familiari. Le condizioni in cui vivono i detenuti nelle carceri sono pessime. Molti detenuti sono scomparsi, tra cui numerosi alti funzionari governativi arrestati nel 2001 dopo che avevano messo in discussione la leadership del dittatore. Per anni sono stati reclusi in isolamento.
Diritti umani e libertà fondamentali
Libertà d’associazione e d’assemblea
La Costituzione eritrea garantisce ad ogni cittadino il diritto di costituire associazioni o organizzazioni, anche di tipo politico.
Sebbene il dettato del testo costituzionale preveda tale diritto, dal 1993 il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (People’s Front for Democracy and Justice – PFDJ) è l’unico partito -riconosciuto ufficialmente e domina la vita pubblica e politica da quando è al potere. È vietata, di fatto, la formazione di qualsiasi associazione o organizzazione privata. Dal 2004, le formazioni politiche di opposizione – quali ad esempio il Partito Democratico e l’Alleanza Nazionale Eritrea – operano in esilio. Oggi la maggior parte di questi partiti si trova in Etiopia o in Sudan e porta avanti la propria propaganda trasmettendo via internet o via satellite. Dalla propaganda sono poi passati all’azione e nel 2020 quello che era una volta ministro della Difesa e leader militare dell’ex-Fronte di Liberazione Popolare Eritreo Mesfin Haqos e l’ambasciatore UN Haile Mankerios hanno fondato una coalizione per porre fine al potere di Isaias Afwerki. Questa coalizione è stata denominata “Unità Eritrea” ed è composta da leader politici e militari che hanno scelto di mettere da parte le varie ostilità religiose ed etniche dopo l’inizio della guerra nel Tigray.
Le organizzazioni non governative, politiche, sociali e quelle che lavorano per la promozione dei diritti umani non sono autorizzate ad operare nel Paese; ogni gruppo composto da più di sette persone necessita dell’autorizzazione governativa prima di potersi associare e, dal 2008, la formazione dei sindacati, benché spesso composti da impiegati del Governo, ha subito una completa paralisi.
Per i raduni pubblici, inoltre, il Governo richiede che coloro che si riuniscono in assemblea ottengano un’autorizzazione, tuttavia questa viene solo sporadicamente rilasciata. Le forze dell’ordine fanno irruzione durante gli incontri, sia culturali che religiosi: fotografano, interrogano e registrano il nome dei partecipanti.
Libertà di espressione e di stampa
Nella Costituzione sono tutelate la libertà di espressione del pensiero e di stampa. Anche queste libertà, però, non vengono di fatto garantite ed è impedito l’esercizio della critica.
La condizione del settore dell’informazione in Eritrea continua ad essere tra le peggiori al mondo, infatti è una delle poche nazioni che manca di qualsiasi forma di media indipendente. La stampa privata ha cessato di operare nel 2001, con la svolta repressiva del Governo di Isaias Afewerki che ha, tra le altre cose, decretato la chiusura di tutti gli organi di stampa e dei mezzi di comunicazione autonomi. In seguito all’attuazione di tali misure numerosi sono stati gli arresti di importanti editori e giornalisti, accusati di aver espresso idee critiche rispetto al Governo o di aver riportato informazioni circa l’attività dei partiti di opposizione. Molti operatori della comunicazione hanno lasciato il Paese a causa delle intimidazioni e del rischio di detenzioni arbitrarie.
Il settore dell’informazione aveva già subito una prima limitazione nel 1996 quando una legge (Press Proclamation Law) aveva disposto che nessuna società estera potesse essere proprietaria di mezzi di comunicazione nel Paese e che ogni tipo di pubblicazione fosse sottoposta all’autorizzazione preventiva del Governo. Nonostante l’assenza di media indipendenti, la Press Proclamation Law del 1996 continua ad essere applicata.
In un’intervista rilasciata all’emittente svizzera TV4, nel giugno del 2009, il Presidente Afewerki ha giustificato la chiusura degli organi di stampa privati con la motivazione che questi fossero guidati da interessi particolari e ha sottolineato che la reale libertà di espressione in Eritrea può essere garantita solo attraverso i media gestiti dallo Stato.
Attualmente nel Paese c’è solo una sola agenzia di stampa, due emittenti televisive e tre stazioni radio, tutte operanti sotto lo stretto controllo del Governo. I giornalisti sono sottoposti ad una rigida sorveglianza e ad una forte pressione affinché diano un’immagine positiva dell’operato del Governo. Vi è la possibilità di acquistare parabole satellitari e abbonarsi ai media internazionali, ma vige l’assoluto divieto di importare pubblicazioni estere senza la previa autorizzazione dello Stato. Esistono alcune stazioni eritree che cercano di raggiungere dall’estero gli ascoltatori nel Paese, come ad esempio Radio Erena, che trasmette via satellite e via Radio da Parigi, oltre ad alcune stazioni schierate con l’opposizione che trasmettono dall’Etiopia.
È fortemente limitato anche l’accesso ad Internet. Il Governo chiede che tutti i providers utilizzino infrastrutture controllate dallo Stato. Molti siti web gestiti da eritrei che si trovano all’estero sono stati bloccati, così come il sito di condivisione di video YouTube. È noto che le autorità statali monitorano le comunicazioni e-mail, anche se l’utilizzo di internet è estremamente limitato. Secondo i dati più recenti rilasciati dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni, l’1,1% della popolazione ha utilizzato Internet nel 2015.
Anche la pubblicazione di libri deve essere sottoposta al vaglio statale.
Il Paese ha fatto registrare il peggior record in Africa per quanto riguarda la detenzione dei giornalisti. L’organizzazione Committee to Protect Journalists ha stimato che almeno 19 giornalisti si trovavano in carcere nel 2010, quasi tutti detenuti incommunicado .
I giornalisti stranieri non possono entrare liberamente in Eritrea e, comunque, la loro presenza non è tollerata, a meno che non accettino di riportare notizie favorevoli al regime. Ci sono stati rari casi di rapporti prodotti da giornalisti che lavoravano in segreto; tuttavia, rimane pressoché impossibile riuscire a operare liberamente all’interno del Paese.
Nel 2019 Amnesty International ha lanciato una campagna per il rilascio di 28 prigionieri di coscienza arrestati nel 2001: in tutto 17 giornalisti e 11 oppositori politici arrestati per aver criticato il governo del presidente Isaias Afewerki. Gli oppositori politici vennero arrestati per aver scritto una lettera aperta al presidente Afewerki chiedendogli di rispettare la costituzione convocando le elezioni e mantenendo lo stato di diritto; i 17 giornalisti furono ritenuti colpevoli di averla pubblicata. Da allora, nessuno dei prigionieri ha dato mai notizia di sé o è stato formalmente incriminato di qualche reato.
Durante il 2020 sono continuate le detenzioni arbitrarie e le sparizioni forzate, per le quali non sono state chiamate in causa le forze di sicurezza. Centinaia le vittime, ma in particolar modo, giornalisti, ex politici e praticanti di religioni non autorizzate, hanno continuato ad essere arbitrariamente detenuti, senza una specifica accusa e con il divieto di accesso ad avvocati o familiari. Molti di loro sono tuttora detenuti ingiustamente da almeno due decenni.
Berhane Abrehe, ex ministro delle Finanze, nel settembre 2018 è stato arrestato dalle forze di sicurezza ad Asmara, fino ad aprile 2019 non era ancora stato rivisto, stando alle dichiarazioni del figlio. Il suo arresto è avvenuto pochi giorni dopo aver pubblicato un libro, intitolato Eritrea My Country, che criticava il governo e invitava gli eritrei a usare mezzi pacifici per realizzare la democrazia. La causa scatenante è stata proprio questo suo libro e dopo il suo arresto, le autorità hanno rifiutato di fornire informazioni su dove si trovasse o sulla sua sorte.
L’exploit è avvenuto nel mese di novembre, in cui agenti di sicurezza hanno circondato e arrestato più di 20 persone nelle aree Mendefera e Adi Quala, nella zona meridionale. Le ragioni del loro arresto e il loro attuale luogo di detenzione erano e sono tutt’ora sconosciute.
Nel 2024, l’Eritrea si è classificata ultima su 180 paesi nella classifica mondiale per la libertà di stampa.
Libertà di religione
Le garanzie costituzionali rispetto alla tutela della libertà religiosa, così come per le altre libertà fondamentali, vengono meno di fronte alle violazioni perpetrate dal Governo e alla mancata attuazione della Costituzione.
Il Governo limita notevolmente i diritti di tutte le comunità religiose presenti nel Paese sia a livello legislativo che nella prassi. Ai gruppi religiosi è richiesto l’ottenimento di un’autorizzazione rilasciata dall’Ufficio per gli Affari Religiosi e la successiva iscrizione in un apposito registro. Questa iscrizione è necessaria affinché i gruppi possano realizzare le attività e i servizi religiosi. Tuttavia, dal 2002, non è stata accettata alcuna registrazione oltre a quella dei quattro gruppi religiosi principali: la Chiesa Eritrea Ortodossa, la Chiesa Evangelica (Luterana), l’Islam e la Chiesa Cattolica Romana.
Le autorità governative hanno continuato a maltrattare e arrestare gli appartenenti sia ai gruppi religiosi registrati che a quelli non registrati. Gli arresti avvengono soprattutto durante le assemblee e i raduni pubblici a carattere religioso. Infine, anche le attività dei quattro gruppi principali sono costantemente controllate.
Limitazioni all’esercizio della libertà religiosa si verificano anche nello svolgimento del servizio di leva durante il quale l’esercizio del culto, anche nel caso delle quattro fedi riconosciute, è fortemente ostacolato: ai membri delle forze armate, per esempio, non è permesso pregare in gruppo e il possesso di libri religiosi, inclusa la Bibbia, è severamente punito.
Secondo le stime delle ONG sono detenute dalle 130 alle più di 1000 persone per il credo religioso, stime difficile da specificare in virtù della mancanza di trasparenza dello Stato.
Nelle carceri, i detenuti appartenenti ai gruppi religiosi subiscono di frequente maltrattamenti e vengono trattenuti in prigione per lunghi periodi senza processo. Si sono verificati casi in cui le persone sono state costrette a ripudiare la propria fede sotto minaccia, sottoposte a tortura e, a volte, sono decedute durante la permanenza in prigione. Spesso il ripudio del proprio credo è condizione necessaria per ottenere il rilascio.
Nel centro detentivo di Sawa, in particolare, si è a conoscenza di abusi perpetrati dai militari su giovani donne o uomini che, sulla base delle proprie credenze religiose, dichiarano uno status di obiezione di coscienza. Per questa ragione molti appartenenti alle fedi che prevedono l’obiezione di coscienza cercano di fuggire dal Paese prima dell’età prevista per il reclutamento.
Particolarmente preoccupante è la discriminazione operata contro la comunità dei Testimoni di Geova, il cui esercizio dei diritti civili e politici è fortemente limitato. Gli appartenenti a questa comunità, per motivazioni legati al loro credo, hanno deciso di non partecipare al referendum per l’indipendenza del 1993 e si rifiutano di effettuare il servizio militare. Il Governo ha interpretato questi comportamenti come un rifiuto della cittadinanza eritrea e, con un decreto presidenziale del 1994, ha negato agli appartenenti a questo gruppo la possibilità di ottenere lavori pubblici, licenze lavorative, documenti di identità, titoli di viaggio e l’acceso ai servizi pubblici.
Numerosi sono stati i Testimoni di Geova e gli appartenenti alla Chiesa Pentecostale detenuti a Sawa dal 1994 in poi. Alcuni rapporti, infine, denunciano abusi sociali e discriminazioni sulla base dell’appartenenza religiosa, delle convinzioni di fede e della pratica del culto.
Il governo continua a detenere e negare la libertà religiosa a chiunque non segua le quattro confessioni riconosciute dal governo: l’Islam sunnita, la Chiesa ortodossa eritrea, la Chiesa cattolica romana e la Chiesa evangelica. Nel 2023 sono stati segnalati 147 nuovi arresti di fedeli cristiani e 44 monaci ortodossi. Un leader della chiesa pentecostale è morto in detenzione ad aprile 2023 dopo 10 anni di detenzione.
La violazione dei diritti umani oggi
La situazione dei diritti umani in Eritrea non mostra segni di miglioramento. Non si arrestano gli episodi di torture, detenzioni arbitrarie, condizioni di detenzione disumane, sparizioni forzate e restrizioni dei diritti alle libertà di espressione. Tutte queste violazioni restano sistematicamente impunite.
Continua il servizio di leva obbligatoria oltre i 18 mesi previsti dalla legge. Chiunque tenti di disertare il servizio militare viene detenuto e punito, la sua famiglia subisce violenze, minacce e sgomberi domestici.
Nada Al-Nashif, Vice Alto Commissario per i Diritti Umani, ha affermato che la situazione dei diritti umani in Eritrea è preoccupante. Mohamed Abdelsalam Babiker, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, ha esortato il governo eritreo a sviluppare un sistema trasparente per la registrazione dei detenuti, al fine di combattere il fenomeno delle sparizioni e delle detenzioni arbitrarie.
Soggetti vulnerabili
Donne
La legge eritrea riconosce alle donne pari opportunità di studio, parità di retribuzione, uguale accesso al lavoro e al diritto di proprietà. Nonostante ciò, soprattutto nelle aree rurali, le discriminazioni in questi settori sono molto forti e gli uomini, principali detentori delle risorse economiche, mantengono privilegi per l’accesso all’educazione e al lavoro.
Violenze e abusi sulle donne sono molto diffusi, soprattutto nelle aree rurali. Sono frequenti, inoltre, i casi di stupro avvenuti durante il periodo di formazione e addestramento militare al campo di Sawa.
È difficile che le violenze siano denunciate, in parte perché sull’argomento vige un forte tabù a livello sociale, in parte perché i metodi per perseguire gli abusi sono limitati e spesso inefficaci. In particolare, per la violenza domestica – considerata un reato dalla legislazione vigente – non è prevista una specifica tipologia di pena, mentre in caso di stupro la vittima è spesso invitata dalle stesse autorità a sposare il proprio aggressore.
Durante il conflitto dell’ultimo anno, centinaia di donne si sono precipitate negli ospedali del Tigray, nel nord dell’Etiopia, per contraccezione d’emergenza e farmaci per la prevenzione dell’HIV dopo essere state sistematicamente violentate da soldati eritrei ed etiopi che combattono nella guerra civile. In una delle prime indagini approfondite sulle accuse di stupro si accerta che quest’ultimo, costituisce un vero e proprio crimine di guerra.
Durante il conflitto nella regione del Tigrè a nord dell’Etiopia, concluso a novembre del 2022, oltre 120mila donne hanno subìto uno stupro da parte delle Forze di difesa eritree (Fde). In un rapporto uscito il 5 settembre 2023 Amnesty international dal titolo “Today or tomorrow, they should be brought before justice” emerge che, malgrado la fine delle ostilità, le violazioni dei diritti umani continuano con stupri, riduzioni in schiavitù sessuale, esecuzioni extragiudiziali e saccheggi da parte delle Fde nei confronti della popolazione civile della regione del Tigray. Il governo etiope si è impegnato a fare giustizia per i crimini commessi durante il conflitto, ma si teme che al momento manchi del tutto la volontà politica di processare i responsabili.
Bambini
Uno dei problemi principali delle giovani generazioni in Eritrea è strettamente collegato all’obbligo del servizio di leva. Infatti, come specificato in precedenza, anche se la legge proibisce il reclutamento dei giovani di età inferiore ai 18 anni, di fatto, i bambini vengono frequentemente reclutati e costretti a frequentare la scuola di formazione e di addestramento presso il campo militare di Sawa. I ragazzi che si sottraggono al reclutamento rischiano di essere arrestati. Gli studenti presenti a Sawa hanno, in genere, 18 anni ma esiste un’alta percentuale di bambini dell’età di 16 anni.
Il Governo obbliga tutti gli studenti che hanno raggiunto l’ultimo anno della scuola secondaria (ad eccezione delle donne sposate che sono, in generale, esentate dalla Leva) a frequentare il 12° grado di addestramento presso il campo militare di Sawa. Gli allievi che non frequentano questo anno conclusivo di addestramento non possono diplomarsi e non possono sostenere gli esami che permetterebbero loro di accedere al livello successivo di studi. Molti giovani cercano di allontanarsi dal Paese per evitare il reclutamento forzato mentre le ragazze, spesso, si sposano per essere esentate dal servizio di leva e dall’obbligo di frequenza della scuola militare.
I bambini sono stati fra le principali vittime del conflitto in Tigray, nel 2020. Le forze governative infatti, hanno utilizzato la storica scuola preparatoria Atse Yohannes nella capitale regionale, Mekelle, come caserma dopo aver preso il controllo della città. L’occupazione e il saccheggio sono avvenuti tra la fine di novembre 2020 fino alla metà di aprile 2021. I combattimenti nel Tigray stanno privando molti bambini dell’istruzione, causando danni per la vita e l’istruzione delle generazioni future.
Per quanto concerne gli abusi sui minori va specificato che non esistono leggi precise che disciplinano questi reati, né programmi governativi finalizzati a contrastarli. Le punizioni fisiche, per esempio, sono pratiche diffuse e socialmente accettate. Per quanto concerne, invece, i reati di sfruttamento sessuale, la legge punisce la prostituzione minorile, la pornografia e lo sfruttamento sessuale anche se, in diverse zone della capitale, la prostituzione, anche quella minorile, è diffusa.
L’età minima per contrarre matrimonio, sia per le donne che per gli uomini, è 18 anni. Alcune fedi religiose, tuttavia, celebrano matrimoni tra ragazzi più giovani.
Infine, la legge proibisce le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF). Le MGF sarebbero state ampiamente eliminate nelle aree urbane grazie alle campagne educative condotte dal Governo. Nelle principali aree rurali, invece, risultano ancora abbastanza diffuse.
LGBTQIA+
Gli omosessuali sono una categoria particolarmente a rischio: la legge eritrea considera l’omosessualità un crimine e quanti hanno rapporti con persone del medesimo sesso sono sottoposti ad arresti, detenzioni e gravi discriminazioni sociali.
Esistono numerose testimonianze di gay o lesbiche che hanno subito gravi abusi durante lo svolgimento del servizio militare. Non esistono, infine, organizzazioni riconosciute rappresentative dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali o transessuali.
Rifugiati
La permanenza delle tensioni con l’Etiopia, l’inasprimento delle relazioni con il Djibouti e il conflitto nella regione del Tigray, hanno fatto sì che, negli ultimi dieci anni, l’Eritrea abbia vissuto in un perenne stato di mobilitazione militare. Questa circostanza, insieme alla svolta autoritaria operata dal Governo, ha dato origine ad un massiccio flusso di persone in fuga dal Paese in cerca di protezione.
La maggior parte si dirige verso l’Etiopia o il Sudan, nonostante la politica attuata dal Governo consista nell’ordine di “sparare per uccidere” chiunque venga scoperto nel tentativo di varcare le frontiere nazionali.
I campi profughi di Mai Aini e di Adi Harush nella regione del Tigray sono stati completamente distrutti e decine di migliaia di rifugiati eritrei sono stati costretti a fuggire per salvarsi. L’alto Commissario dell’ONU, ha chiesto alle autorità di Macallè di fare chiarezza e di poter prestare assistenza a tutti i rifugiati e ai richiedenti asilo detenuti illegalmente, chiedendone il rilascio immediato. Inoltre, venuti a conoscenza di altre accuse estremamente serie di violenza perpetrata contro rifugiati eritrei, l’ONU ha esortato il Governo Federale e il Governo Regionale del Tigray ad avviare formalmente le indagini in relazione a tutte le accuse credibili[46]. L’UNHCR, nel 2023, ha riportato che sono 559.853 gli eritrei fuggiti dal Paese. Nel 2023 sono rispettivamente 104.892 i richiedenti asilo e 169.074 i rifugiati eritrei in Etiopia e 124.180 in Sudan.[47]Dallo scoppio delle ostilità nel Tigray, a novembre 2020, molte persone hanno subìto le conseguenze causate dalle violenze e dall’assenza di sicurezza che ha travolto la regione. Le violenze e le intimidazioni nei confronti dei rifugiati eritrei sono state molteplici. Ad una situazione altamente precaria si aggiungono gli effetti del cambiamento climatico che specialmente in queste zone non lasciano scampo ad una popolazione già provata che si ritrova ad affrontare gravi siccità che causano carestie.
Il servizio militare a tempo indeterminato continua a spingere gli eritrei a fuggire dal loro Paese. L’UNHCR ha segnalato la presenza di oltre 345.000 rifugiati e richiedenti asilo eritrei nella sola Africa orientale. Nel 2023 i richiedenti asilo eritrei che cercavano protezione in diversi paesi hanno subìto minacce alla loro sicurezza, respingimenti e rimpatri forzati da parte delle autorità di vari paesi tra cui Sud Sudan, Sudan, Israele ed Etiopia. Nel Sudan nel 2023 si trovavano oltre 130.000 rifugiati e richiedenti asilo eritrei che hanno visto la loro vita nuovamente in pericolo a causa dello scoppio del conflitto sudanese il 15 aprile dello stesso anno.
Riepilogo fonti
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