GEOGRAFIA

La Repubblica Islamica dell’Afghanistan è situata nel sud-ovest dell’Asia. Ha una superficie di 652.230 Km² e confina a nord con il Turkmenistan, l’Uzbekistan e il Tajikistan, a nord-est con la Repubblica Popolare Cinese, ad est e a sud con il Pakistan, ad ovest con l’Iran.

L’Afghanistan è un territorio prevalentemente montuoso con zone pianeggianti solo nel nord e nel sud-ovest.

Il clima dell’Afghanistan varia considerevolmente, con inverni freddi e nevosi ed estati calde e secche. Gli sbalzi di temperatura estremi si verificano dalla notte al giorno, da una stagione all’altra e da un luogo all’altro

ECONOMIA

L’economia afgana è una tra le più povere del pianeta e risente dei continui conflitti che si sono susseguiti negli ultimi decenni che hanno distrutto le infrastrutture, sconvolto il sistema sociale, vessato e decimato la popolazione. 

Nonostante i recenti progressi infatti, l’Afghanistan rimane estremamente povero. Privo di uno sbocco sul mare, è fortemente dipendente dagli aiuti esteri. La maggior parte della popolazione continua a soffrire della mancanza di alloggi, lavoro, acqua potabile, elettricità e accesso alle cure mediche. 

Il settore industriale afghano comprende produzioni su piccola scala di tessuti e tappeti, saponi, mobili, scarpe e vestiario, prodotti alimentari, bibite analcoliche e acqua minerale, nonché gas naturale, carbone, rame. I principali poli industriali si trovano a Kabul e Surkab, mentre gradualmente il Paese sta iniziando a intensificare l’estrazione di ferro, rame, niobio e litio.

L’attività prevalente in Afghanistan rimane l’agricoltura, che qui occupa la maggior parte della popolazione. Tra i principali prodotti vi sono il grano, la frutta, le noci, la lana e l’oppio. La produzione e commercializzazione di quest’ultimo hanno registrato una crescita esponenziale negli ultimi anni (le piantagioni sono aumentate del 36%) costituendo così uno dei fattori di maggiore destabilizzazione del potere statale.

Secondo l’ultimo rapporto dell’UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), dall’Afghanistan proviene l’80% degli oppiacei consumati in tutto il mondo. Gli oppiacei sono uno dei pochi prodotti con il quale l’Afghanistan partecipa al mercato mondiale da decenni. Tra mercato interno ed esportazioni estere, oppio ed eroina generano ormai tra il 9% e il 14% del prodotto interno lordo dell’Afghanistan, superando persino il valore delle esportazioni legali di beni e servizi. La produzione di oppiacei è senza dubbio la più grande attività economica illegale dell’Afghanistan. In alcune regioni, la coltivazione del papavero da oppio occupava gran parte della superficie agricola, sottraendo terra a colture di vitale importanza, come il grano andando a incrementare i livelli di povertà e insicurezza alimentare.

Tale insicurezza, unita alla criminalità e all’incapacità del governo afgano di far valere la legge in tutte le zone del Paese pongono grandi sfide alla crescita economica. Gli standard di vita dell’Afghanistan sono tra i più bassi al mondo. La situazione economica è migliorata con la caduta del regime dei Talebani nel 2001, in gran parte grazie all’afflusso degli aiuti internazionali. Questa maggiore attività ha ampliato l’accesso all’acqua, all’elettricità, ai servizi igienico-sanitari, all’istruzione e ha favorito una crescita costante delle entrate governative dal 2014. Nonostante il graduale ritiro delle forze di sicurezza internazionali dal paese dal 2012, il progresso economico ha continuato a crescere, anche se in maniera disomogenea tra i settori e gli indicatori economici chiave. Nel 2019 l’Afghanistan aveva registrato una nuova crescita, nonostante la siccità che aveva colpito il paese solo l’anno prima. Tuttavia, l’instabilità politica, gli impegni finanziari internazionali in scadenza e la pandemia di COVID-19 hanno causato notevoli avversità per l’economia afgana. Questa instabilità, unita a sovvenzioni e assistenza internazionali in scadenza, hanno messo in pericolo i guadagni fiscali ed hanno portato a un maggior numero di sfollati interni. Nel novembre 2020, l’Afghanistan si è assicurato 12 miliardi di dollari in ulteriori aiuti internazionali per il periodo 2021-2025, gran parte dei quali era subordinato al progresso della pace dei talebani. Inoltre, l’Afghanistan ha continuato a subire afflussi di rimpatri afgani, principalmente dall’Iran, mettendo a dura prova le istituzioni economiche e di sicurezza.

L’economia dell’Afghanistan è collassata a seguito della presa di potere da parte dei talebani. Si stima che il PIL sia ulteriormente diminuito del 3,6% nel 2022, dopo la contrazione del 20,7 nel 2021. Con una popolazione stimata dalle Nazioni Unite di circa 40 milioni di abitanti e un PIL di 14,3 miliardi di dollari nel 2021, l’Afghanistan è tra i Paesi con il più basso reddito pro capite al mondo.

I Talebani al potere hanno promulgato un bando che mira ad una drastica riduzione della produzione di oppio sul territorio afgano, in questo modo sono riusciti a ridurre di oltre il 99% la coltivazione del papavero nella sola provincia di Helmand, che prima del 2021 produceva oltre il 50% dell’oppio in tutto il Paese. Il nuovo governo, nel febbraio del 2023, ha iniziato ad attuare una specie di “pulizia” della capitale rinchiudendo migliaia di tossicodipendenti in dei centri pubblici dalla capienza massima di duemila posti; veri e propri campi di detenzione situati nella zona di Camp Phoenix, dove non viene effettuato nessun tipo di trattamento o terapia sostitutiva. Ciononostante l’uso di oppiacei in Afghanistan resta una grave emergenza nazionale. A causa delle restrizioni del governo, tale fenomeno non è più visibile come era un tempo, poiché è stato confinato nelle zone periferiche, lontano dai centri delle città.

La violenza di decenni di conflitto, la disperazione per la terribile situazione economica attuale causata dall’impennata dei prezzi dei generi alimentari e la perdita di posti di lavoro, hanno spinto circa 25 milioni di afghani nella povertà, con più della metà della popolazione che ora dipende dagli aiuti umanitari per sopravvivere. Gli aiuti internazionali allo sviluppo hanno subito un brusco arresto.

Tre quarti del reddito delle persone vengono spesi per l’acquisto di cibo. Sei milioni di persone sono sull’orlo della carestia e un milione di bambini rischia una grave malnutrizione. I prezzi dei prodotti alimentari continuano a salire – in parte a causa della guerra in Ucraina – mentre i redditi delle famiglie continuano a ridursi. Qualsiasi riduzione degli aiuti internazionali peggiorerà le prospettive economiche dell’Afghanistan e la povertà estrema si perpetuerà per decenni. Ma l’economia non può essere rilanciata se le donne non possono lavorare, mentre la futura crescita economica è limitata dalla mancanza di investimenti nell’istruzione delle ragazze e delle donne.

Le continue politiche restrittive sull’istruzione e sul lavoro delle donne e la crescente instabilità delle banche hanno danneggiato ulteriormente l’economia con un evidente impatto sociale.

Il numero di famiglie che vivono in povertà è raddoppiato, con 34 milioni di persone, il 90% della popolazione, che vivono al di sotto della soglia di povertà.

Dopo il ritorno dei Talebani, infatti, molte banche estere hanno congelato i beni statali provocando, così, una serie di sfide critiche, tra cui un importante calo della spesa pubblica, redditi familiari ridotti, disoccupazione a livelli altissimi e consumi dimezzati. Tutto ciò ha causato un innalzamento significativo della soglia di povertà e una grave insicurezza alimentare, con più di due terzi della popolazione che necessita di assistenza umanitaria.

Quella afgana è attualmente una delle peggiori crisi umanitarie al mondo. Nel 2023 oltre 28 milioni di persone, due terzi della popolazione, hanno avuto bisogno di aiuti umanitari, di cui 14,7 milioni non disponevano di beni per la sopravvivenza di base. Nei primi sei mesi del 2023, oltre 4 milioni di afghani, di cui 3,2 milioni di bambini sotto i 5 anni tra cui più di 840.000 donne incinte e in allattamento, erano gravemente malnutriti. Dopo l’agosto del 2021 l’Afghanistan ha perso la maggior parte degli aiuti esteri. La grave carenza di assistenza umanitaria unita alla siccità dovuta ai cambiamenti climatici sono tra le principali cause della crisi umanitaria afgana. L’ ONU ha richiesto 3,26 miliardi di dollari in finanziamenti umanitari per l’Afghanistan per il 2023, ma a novembre aveva ricevuto meno del 25 percento di quanto aveva richiesto. Alla fine del 2023 diverse organizzazioni umanitarie che fornivano assistenza sanitaria Sono state costrette a chiudere cliniche e ospedali a causa della grave mancanza di finanziamenti.

INDICI DEMOGRAFICI E DI SVILUPPO

CONTESTO STORICO E SOCIO CULTURALE

CONTESTO STORICO

Cenni sintetici sull’era pre-sovietica

La storia moderna dell’Afghanistan è stata segnata da numerose guerre civili e da conflitti. La prima Costituzione della nazione venne redatta nel 1923. La monarchia costituzionale, introdotta nel 1964, giunse al termine con la deposizione del Re Zahir Shah da parte del Primo Ministro Mohammad Daoud, nel colpo di stato del 1973. Il presidente Daoud fu destituito, a sua volta, con un colpo di stato ad opera del People’s Democratic Party of Afghanistan (PDPA), un piccolo movimento di stampo marxista-leninista che conquistò il potere nell’aprile del 1978, sostenuto dall’Unione Sovietica. Tuttavia, l’ideologia del PDPA non trovò grande consenso, provocando la crescita di forti resistenze interne al Paese. Questo condusse a una guerra civile che si intensificò fortemente con l’invasione delle truppe sovietiche in territorio afgano, nel 1979.

Invasione sovietica (1979-1989)

L’invasione sovietica portò all’instaurazione di un regime comunista a Kabul e all’inaugurazione di anni di conflitto, fino al ritiro delle truppe sovietiche dal Paese, avvenuto nel 1989 in seguito all’Accordo di Ginevra del 1988.

Durante gli anni dell’occupazione sovietica gli Stati Uniti iniziarono ad appoggiare le forze di opposizione al regime, composte da gruppi islamici. Gli USA fornirono aiuti finanziari e militari finalizzati a supportare la lotta contro i sovietici e contro il governo comunista di Kabul.

Periodo post sovietico (1989-1993) e caduta di Kabul ad opera dei Mujahadin

Dopo il ritiro delle truppe sovietiche, nel febbraio del 1989, iniziò una vera e propria guerra civile tra il governo marxista (supportato dai sovietici) del Presidente Najibullah e le diverse fazioni di opposizione, conosciute come Mujahadin (combattenti della guerra santa), appoggiate dagli Stati Uniti. I Mujahadin lottarono contro il governo di Najibullah fino al suo crollo definitivo.

Nel 1992, in particolare, si assistette al rafforzamento del potere dei Mujahadin che avevano stretto un’alleanza con il leader della milizia uzbeka, Abdul Rashid Dostum. Dostum era un generale dell’esercito durante il regime sovietico e alleato del Presidente Najibullah che aveva combattuto a difesa della Repubblica Democratica dell’Afghanistan di stampo comunista. Nel 1992, Dostum cambiò radicalmente la sua posizione nel contesto del conflitto afgano e strinse un’alleanza con le forze dei Mujahadin, in particolare con Ahmed Shah Massud.

Nell’aprile del 1992, le milizie dei Mujahadin entrarono a Kabul ponendo fine a quel che rimaneva del regime comunista di Najibullah. Con la ritirata del nemico comune, tuttavia, emersero pesantemente le forti differenze tra questi diversi gruppi combattenti, così i Mujahadin iniziarono a combattere tra loro per il controllo di Kabul e il conflitto civile acquistò rapidamente una dimensione etnica.

La fine del regime comunista portò alla scoperta di 3 fosse comuni, a Pol-i-charkhi nei dintorni di Kabul, non lontano dalla prigione centrale, e nelle province di Bamyan e Herat. Il Governo era convinto che ulteriori indagini avrebbero portato alla luce altri omicidi di massa commessi dal regime. L’occupazione sovietica e la conseguente guerra avevano provocato più di un milione di morti e aveva costretto circa 6 milioni di persone (su una popolazione totale di 16 milioni) a fuggire cercando protezione nei Paesi limitrofi. Furono circa 2 milioni, inoltre, gli sfollati interni.

Gli anni dei Mujahidin al potere (1993-1996)

Le Nazioni Unite offrirono la loro mediazione nel conflitto tra le varie fazioni di Mujahadin proponendo un piano di pace che, però, fallì nell’aprile del 1992. Uno dei risultati raggiunti dalla mediazione ONU fu la realizzazione del trasferimento dei poteri alla fazione tagika dei Mujahadin, guidata da Burhanuddin Rabbani, che divenne Presidente dell’Afghanistan nel luglio del 1992. Il governo del Presidente Rabbani era supportato dalle forze di Ahmad Shah Masoud, mentre una forte opposizione era esercitata da Gulbuddin Hekmatyar, leader della fazione Hezb-e-Islami dei Mujahadin, rappresentativa del popolo Pashtun.  

Burhanuddin Rabbani lanciò un’offensiva contro on Hizb-e Wahdat (partito di opposizione rappresentativo dell’etnia Hazara). Durante il governo di Rabbani molti Hazara vennero uccisi. Amnesty International riportò successivamente dell’avvenuta uccisione di civili inermi e dello stupro delle donne Hazara. Nel febbraio 1993, centinaia di Hazara residenti nel distretto di Afshar, a ovest di Kabul, furono massacrati dalle forze governative controllate da Rabbani e dal suo comandante in carica Masoud. L’arrivo dei Mujahadin al governo non portò stabilità nel Paese. L’esercito era frammentato e questo alimentò l’insorgere di rivendicazioni di potere da parte dei diversi gruppi presenti in tutta la nazione. Gli scontri tra i combattenti del generale Ahmad Shah Masoud, che occupavano il centro di Kabul, e il leader del gruppo Hezb-e Islami, Gulbuddin Hekmatyar, sostenuto dal Pakistan, si intensificarono fino al 1996.

 La lotta tra le diverse fazioni di Mujahadin causò la morte di più di 25.000 civili nella capitale fino al 1995. Durante questo periodo le infrastrutture scolastiche e sanitarie dello Stato furono distrutte. L’UNICEF riportò la morte di 1,5 milioni di bambini per malnutrizione e mancanza di cure sanitarie.

Il regime dei Talebani

Nel 1993-94, alcuni studenti afgani di fede islamica, provenienti in maggioranza dalle aree rurali e appartenenti all’etnia Pashtun, costituirono il gruppo dei Talebani. Molti di loro erano ex Mujahadin che, delusi dal conflitto tra le differenti fazioni di combattenti, si erano trasferiti in Pakistan per studiare nelle “Madrassas” (scuole islamiche), in particolare della scuola islamica Deobandi.

La parola “talebano” significa, appunto, “studente del Corano”; si pensa che l’interpretazione dell’Islam in questa scuola sia simile a quella del Wahhabismo praticato in Arabia Saudita. Le pratiche dei Talebani, inoltre, sono strettamente legate al codice tribale dei Pashtun. Nel 1994, i Talebani (fortemente sostenuti dal Pakistan) assunsero abbastanza potere da riuscire a conquistare la città di Kandahar e poi ad espandere il proprio controllo sul resto della nazione fino alla conquista di Kabul, nel settembre del 1996.

Nell 1998, controllavano circa il 90% del territorio afgano, mentre il resto rimaneva occupato dalle fazioni opposte. Il loro regime fu caratterizzato dall’imposizione di un’interpretazione molto rigida della legge islamica e dei codici tribali Pashtun. Ne sono alcuni esempi l’utilizzo di punizioni fisiche volte a far applicare rigidamente le pratiche islamiche; per le donne, il divieto di frequentare la scuola o di lavorare al di fuori dell’ambiente domestico, l’obbligo di indossare un velo che coprisse interamente il corpo, fino alle pubbliche esecuzioni nei confronti delle donne accusate di adulterio. Vigeva, inoltre, l’uso della forza per proibire qualsiasi forma di attività ritenuta “non islamica” come guardare la televisione, ascoltare musica occidentale o danzare. Un segno forte dell’intolleranza del regime fu la distruzione delle gigantesche statue di Buddha in Bamiyan.  Numerose, dunque, le violazioni dei diritti umani commesse dal regime, soprattutto contro le donne e le minoranze etniche, in particolare gli Hazara di religione sciita.

Con la caduta di Kabul in mano talebana, alcuni signori della guerra non vollero riconoscere il regime talebano. Così, dall’unione di diversi gruppi combattenti (in precedenza belligeranti tra loro), nacque l’Alleanza del Nord, un’organizzazione che raccolse diverse fazioni unite dall’obiettivo di combattere militarmente il regime. Era costituita, essenzialmente, da tre gruppi etnici non-Pashtun: i Tagiki, gli Uzbeki e gli Hazara. La guerra civile proseguì fino al 2001 a fasi alterne, senza che né i Talebani, né l’Alleanza del Nord riuscissero a ottenere vittorie significative. In seguito agli attacchi dell’11 settembre del 2001 al World Trade Center e al Pentagono gli Stati Uniti lanciarono la campagna militare “Enduring Freedom” finalizzata a rovesciare il regime talebano, accusato di aver dato protezione ai responsabili degli attentati appartenenti alla rete terroristica di Al-Qaeda, guidata dal saudita Osama Bin Laden. Alla fine del 2001, le forze dell’Alleanza del Nord, supportate dall’invasione militare condotta dagli USA, (consistente, in particolare, in attacchi aerei contro le roccaforti talebane e di Al-Qaeda) entrarono a Kabul e conquistarono la città, ponendo fine aL regime talebano.

Il periodo post-talebano e l’accordo di Bonn

Dopo la caduta dei Talebani, le Nazioni Unite riunirono i leader dei diversi gruppi etnici afgani in Germania, a Bonn. Lo step iniziale per la ricostruzione della nazione fu la firma, il 5 dicembre del 2001, dell’accordo di pace (Accordo di Bonn) da parte delle diverse fazioni afgane riunitesi nella città tedesca.
L’accordo aveva l’obiettivo di creare una nuova struttura governativa che potesse guidare il Paese attraverso la delicata fase di transizione, mentre veniva delineata una road map per il ripristino di un governo rappresentativo in Afghanistan.
Alla fine di dicembre 2001 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con una Risoluzione, autorizzò il dispiegamento di una Forza Internazionale di Assistenza e Sicurezza (ISAF) che aiutasse a garantire l’ordine pubblico a Kabul nei sei mesi successivi (così come previsto dall’Accordo di Bonn).
Nel giugno del 2002 , sotto la supervisione delle Nazioni Unite, venne istituito il Loya Jirga d’emergenza (Grande Assemblea composta da rappresentanti di diversi gruppi etnici interni al Paese) che nominò un’Amministrazione Transitoria cui spettava il compito di governare il Paese fino alle elezioni del 2004. Hamid Karzai, con il voto dell’80% dei delegati, assunse il ruolo di presidente ad interim e capo dell’Amministrazione Transitoria.
Il 4 gennaio del 2004 entrò in vigore una nuova Costituzione che istituì un sistema presidenziale di governo e riconobbe l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. Fu introdotto, inoltre, uno specifico riferimento alla tutela dei diritti umani e all’uguaglianza di genere.
La Costituzione garantiva un certo numero di seggi alle donne all’interno delle due Camere del Parlamento. Ulteriori previsioni circa il riconoscimento delle minoranze linguistiche e dei diritti della minoranza sciita furono inserite nel testo costituzionale.

Elezioni presidenziali del 2004

Il 9 ottobre 2004 in Afghanistan si svolsero le prime elezioni presidenziali dirette. Nonostante alcune denunce di brogli elettorali, le elezioni furono dichiarate valide dagli osservatori internazionali che, a seguito di un’indagine, ritennero che le presunte irregolarità non erano state rilevanti al punto di alterare il risultato finale. Il Presidente Hamid Karzai, pertanto, fu proclamato ufficialmente vincitore con il 55,4% dei voti.

Elezioni legislative del 2005

Il 18 settembre del 2005 il popolo afgano prese parte alla prima elezione parlamentare dopo 36 anni. Queste elezioni furono più complesse di quelle presidenziali del 2004. L’affluenza alle urne fu di circa 6,8 milioni su 12,4 milioni di aventi diritto al voto, una percentuale del 54%. La partecipazione al voto fu inferiore rispetto alle precedenti elezioni presidenziali. Le ragioni erano diverse ma, dal punto di vista politico, giocarono come fattori negativi la presenza nelle liste di ex “signori della guerra” ed ex Mujahadin, nonché la disaffezione della gente per una classe politica troppo lenta nell’attuare le riforme promesse.
D’altro canto occorre sottolineare anche gli aspetti positivi di questa importante fase storica del Paese: milioni di persone andarono a votare respingendo l’appello al boicottaggio lanciato dai Talebani e sfidando le minacce da parte di elementi appartenenti ad Al-Qaeda. Si registrarono più di 500 episodi di violenza durante le giornate di voto. Gli elettori, pertanto, dimostrarono una forte determinazione nella volontà di prendere parte al processo democratico della nazione.

Elezioni presidenziali del 2009 e rielezione di Hamid Karzai

Il 20 agosto 2009 si tennero le elezioni per il secondo mandato presidenziale. La ricandidatura del Presidente Karzai venne ufficialmente registrata nel maggio del 2009. Le elezioni furono caratterizzate da polemiche e brogli. La Commissione Elettorale Indipendente invalidò il primo risultato, che dava Karzai vincitore al primo turno, e indisse un ballottaggio tra lo stesso Karzai e il candidato d’opposizione più votato, l’ex ministro degli esteri Abdullah Abdullah. Quest’ultimo, però, si ritirò dal ballottaggio una settimana prima del suo svolgimento. Di conseguenza la Commissione Elettorale Indipendente (Iec) afgana decise di annullare il ballottaggio proclamando la vittoria di Hamid Karzai per il secondo mandato presidenziale.
Durante le operazioni elettorali i Talebani diffusero pesanti minacce alla popolazione che si recava alle urne e diverse persone furono uccise nel corso di attacchi realizzati in alcune province.

Elezioni legislative del 2010

Le nuove elezioni legislative si tennero il 18 settembre 2010, in un clima di grande confusione e di insicurezza. I Talebani continuavano a lanciare pesanti intimidazioni alla popolazione affinché venissero boicottate le elezioni da loro ritenute illegittime.  La Commissione Elettorale Indipendente decretò la chiusura di circa mille seggi elettorali per ragioni legate alla sicurezza dei votanti, soprattutto nell’est e nel sud del Paese (zone controllate in buona parte dai gruppi di insorti).

Amnesty International all’epoca denunciò che molti candidati, attivisti ed elettori subirono attacchi e minacce da parte dei Talebani e di altri gruppi di insorti. Già dal mese di luglio si verificarono omicidi di alcuni candidati, mentre le donne politicamente attive erano state oggetto di numerose intimidazioni. In questo clima di forte insicurezza le autorità elettorali afgane cercarono di garantire lo svolgimento delle procedure di voto. Quello che è l’attuale Parlamento afgano venne convocato per la prima volta il 26 gennaio 2011.

Seconda Conferenza di Bonn e processo di pace

Il 5 dicembre del 2011 si tenne la seconda conferenza di Bonn, presieduta dal governo afgano. Lo scopo della conferenza era quello di definire l’impegno della comunità internazionale a supporto dell’Afghanistan in seguito al ritiro delle truppe internazionali nel 2014. Durante la conferenza nessuna nuova strategia di riconciliazione con i Talebani venne proposta, e questi ultimi nemmeno vi presero parte, nonostante la loro presenza e partecipazione negli accordi di pace fosse considerata necessaria sia dalle autorità afgane che dagli attori internazionali. Tuttavia, forti perplessità vennero espresse circa il coinvolgimento dei Talebani negli accordi di pace e i potenziali compromessi che avrebbero potuto essere necessari per garantirne la partecipazione. Nel 2010 Karzai istituì l’Alto Consiglio di Pace (High Peace Council – HPC), che avrebbe avuto il compito di condurre i negoziati di pace con i Talebani e con gli ex “signori della guerra”, ma all’effettivo l’istituzione non riuscì a raggiungere grandi risultati. A settembre del 2011, Burhanuddin Rabbani (ex Capo dell’Alto Consiglio di Pace), venne assassinato in un attentato suicida, mentre a maggio 2012 venne ucciso un altro membro del Consiglio ed ex ministro Talebano, Mullah Arsala Rahmani.

Ritiro delle truppe straniere dal territorio afgano, proseguimento dei negoziati di pace e elezioni presidenziali

A gennaio 2012 i Talebani raggiunsero un accordo sull’apertura di un ufficio in Qatar, una mossa verso l’avvio di negoziati di pace che gli Stati Uniti consideravano un elemento cruciale per una soluzione politica del conflitto e per la costruzione di un Afghanistan stabile. Tuttavia, due mesi dopo (marzo 2013), i Talebani sospesero i negoziati accusando Washington di aver rinnegato le promesse di compiere passi significativi rispetto allo scambio di alcuni prigionieri.

A febbraio 2012 il segretario della difesa USA Leon Panetta annunciò il piano del Pentagono per la conclusione della missione a partire già dalla metà del 2013 e di passare ad assumere principalmente un ruolo di assistenza alla sicurezza in Afghanistan.

Nel maggio 2012 si tenne un summit della NATO per promuovere il piano per il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan entro la fine del 2014. Nello stesso periodo, il Presidente francese Hollande dichiarava che la Francia avrebbe ritirato la sua missione alla fine del 2012, un anno dopo rispetto a quanto era stato pianificato.

A luglio 2012, a fine della Conferenza dei Donatori a Tokyo, vennero promessi 16 milioni di dollari in aiuto alla popolazione civile afgana. In cambio l’Afghanistan accettava nuove condizioni per contrastare la corruzione. I finanziamenti vennero messi a disposizione da Stati Uniti, Giappone, Germania e Regno Unito.

A febbraio 2013, il Presidente afgano Karzai e il Presidente pakistano Asif Ali Zardari si impegnarono a lavorare per un piano di pace entro 6 mesi dopo l’avvio dei negoziati ospitati dal Primo Ministro Britannico David Cameron.

A giugno 2013 l’esercito afgano assunse il comando di tutte le operazioni militari e di sicurezza dalle forze NATO.

A seguito all’annuncio di Washington di condurre negoziati diretti con i Talebani, il Presidente Karzai decise di sospendere i colloqui con gli USA finalizzati a stabilire accordi bilaterali sulla sicurezza.

A febbraio 2014 iniziò la campagna elettorale per le elezioni presidenziali, che venne caratterizzata da una crescita esponenziale degli attacchi da parte dei talebani. A seguito delle elezioni, nell’aprile dello stesso anno, nessuno dei due candidati, Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani, riuscì ad ottenere i voti per vincere il primo turno elettorale. Si decise per un ballottaggio tra due. Il secondo turno delle elezioni presidenziali, tenutesi nel giugno 2014, fu segnato da più di 50 omicidi avvenuti in diversi incidenti durante il voto.

A termine delle elezioni, secondo i risultati diffusi dalla commissione elettorale afghana, Ghani vinse ottenendo il 56,44% dei voti, mentre Abdullah il 43,56%. I risultati elettorali non vennero accettati ed entrambi i candidati si proclamarono vincitori, accusandosi reciprocamente di brogli. I due riuscirono a raggiungere un accordo a seguito di un incontro con il Segretario di Stato americano John Kerry. Nel luglio 2014 Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani accettarono di sottoporre i risultati elettorali a un riconteggio, promettendo di accettare il risultato. Così, a settembre 2014, Ashraf Ghani pronuncia il giuramento come presidente. USA e Gran Bretagna annunciarono una significativa riduzione della loro presenza nel paese.

Anche la NATO, nel dicembre 2014, decise di chiudere formalmente la sua missione in Afghanistan (durata 13 anni) consegnando il territorio nelle mani delle forze afgane. Malgrado la conclusione della missione (ISAF), la violenza continuò, portando il 2014 ad essere riconosciuto come l’anno più sanguinoso che il Paese abbia conosciuto dal 2001. Dato il livello ancora alto di violenza nel paese, nel 2015 la NATO istituì una nuova missione, “Resolute Support”, con l’obiettivo di fornire ulteriore formazione e supporto alle forze di sicurezza afghane, successivamente estesa di altri 12 mesi fino alla fine del 2016. A questa missione vi prenderanno parte anche contingenti militari italiani.

Il 2015 si assistette anche alla formazione di un nuovo gruppo islamico (IS) nell’Afghanistan orientale, che nel giro di pochi mesi riuscì a prendere il controllo di un grande gruppo di aree controllate dai talebani nella provincia di Nangarhar.

Nel marzo del 2015, a seguito di una richiesta espressa dallo stesso presidente Ashraf Ghani, il presidente americano Barack Obama annunciò che gli USA avrebbero ritardato nel ritiro delle loro truppe dal territorio afghano. A ottobre dello stesso anno, gli USA decisero che 9.800 truppe statunitensi sarebbero rimaste in Afghanistan fino alla fine del 2016.

Nel maggio 2015, i funzionari afgani e rappresentanti dei talebani si incontrarono in Qatar per degli accordi informali di pace. Tuttavia i Talebani presero l’occasione per ribadire il loro impegno nei combattimenti fino a che non fosse avvenuto il ritiro definitivo delle truppe straniere. Nel luglio dello stesso anno, gli stessi Talebani confermarono la morte di Mullah Omar, nominando Mullah Akhter Mansour come suo successore.

All’inizio del 2016 le attività aeree degli USA riuscirono ad avere la meglio sullo Stato Islamico (IS) nell’est del paese, riducendone la presenza solo in alcuni distretti di Nangarha.

A maggio 2016 il nuovo leader dei talebani Mullah Akhter Mansour rimase ucciso durante un attacco di droni statunitensi in Pakistan nella provincia di Baluchestan. Vista la situazione instabile, Barack Obama decise che 8.400 truppe americane sarebbero rimaste nel Paese anche nel 2017, mentre la NATO si impegnò a supportare finanziariamente le forze locali di sicurezza fino al 2020.  Intanto, tra agosto e ottobre 2016, i talebani riuscirono ad avanzare verso la periferia di Lashkar Gah, la capitale di Helmand e nella città settentrionale di Kunduz.

I conflitti del 2016 provocarono la morte di 3.498 civili e il ferimento di 7.920 persone. Il 61% dei decessi venne causato dalle azioni delle forze antigovernative, mentre il 24% da quelle delle forze pro-governative.

A gennaio 2017 un attacco a Kandahar uccise sei diplomatici degli Emirati Arabi Uniti.

Da febbraio 2017, le attività dello Stato Islamico (IS) iniziarono ad aumentare in alcune province del nord e del sud. Tra gli attacchi rivendicati vi è quello di marzo 2017 all’interno di un ospedale di Kabul, in cui 30 persone rimangono uccise e 50 ferite. A giugno dello stesso anno, lo Stato Islamico (IS) riuscì a prendere possesso della regione montuosa di Tora Bora nella provincia di Nangarhar, precedentemente utilizzata come base da parte del leader di al Qaeda Osama Bin Laden.  

A settembre 2018, il presidente statunitense Donald Trump, dichiarò l’intenzione di ritirare le truppe statunitensi dal territorio afghano, dando il via a un lungo processo non ancora ad oggi concluso.

ottobre 2018 si svolsero le elezioni parlamentari, per eleggere i 250 membri della Wolesi Jirga, ossia la Camera Bassa del parlamento afghano. Le elezioni si tennero in un clima di violenza e caos.

Nel 2018, l’Afghanistan si confermò come uno dei paesi d’origine del maggior numero di rifugiati (2,7 milioni), secondo solo alla Siria.

A gennaio 2019 gli Stati Uniti e i talebani si incontrarono a Doha, Qatar, per mettere a punto le linee generali di un possibile accordo. A seguito di sei giorni di colloqui, la prima versione dell’accordo prevedeva l’abbandono da parte delle truppe statunitensi del suolo afghano entro 18 mesi dalla firma e ratifica dello stesso. I negoziati per la firma di questo potenziale accordo si svolsero tra i continui attacchi armati da parte dei talebani. Nonostante i lunghi colloqui e una prima versione del patto, le due parti non riuscirono a concordarsi e l’incontro si concluse come un nulla di fatto.

Da inizio 2019 la Commissione Elettorale Indipendente fu costretta a rimandare più di una volta le elezioni presidenziali, che si tennero infine il 28 settembre dello stesso anno, in un clima di grande paura e incertezza, con ulteriori minacce da parte dei talebani di attacchi e attentati ai seggi. I risultati preliminari videro Ashraf Ghani in vantaggio rispetto al suo principale opponente Abdullah Abdullah. Solo nel febbraio 2020 le autorità elettorali dichiararono vincitore il presidente uscente, Ashraf Ghani, ma il suo principale avversario respinse il risultato delle elezioni, definendole illegittime, quasi in replica degli accaduti del 2014.

La condizione generale della sicurezza in Afghanistan si è progressivamente deteriorata negli ultimi anni. Dal 2007 ad oggi, nelle aree settentrionali (prima considerate maggiormente sicure) si è assistito ad un peggioramento della situazione. I “signori della guerra” hanno riacquisito potere ricorrendo alla violenza e alle minacce per mantenere il controllo sulla popolazione civile, che viene coinvolta in brutali aggressioni o rapimenti. Dal 2009 i Talebani hanno aumentato la loro presenza nella zona settentrionale. Inoltre, dopo la morte di Osama Bin Laden nel 2011, l’insorgenza talebana si è rafforzata in quest’area generando molte preoccupazioni anche in vista del ritiro delle truppe internazionali dal Paese.

Nel 2019, secondo il rapporto dell’UNHCR, l’Afghanistan è risultato uno dei paesi che provoca il maggior numero di rifugiati (2,7 milioni), dopo la Siria e il Venezuela.

Il 20 gennaio 2020, ebbe inizio una nuova sessione di colloqui tra il rappresentante speciale USA in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, e il capo negoziatore dei talebani, il Mullah Abdul Ghani Baradar.

Il 12 febbraio 2020 il Presidente D. Trump rese noto che avrebbe proceduto alla firma degli accordi di pace solo se i talebani avessero dimostrato il loro impegno per una riduzione duratura delle violenze in un periodo di prova di circa 7 giorni. Nonostante la riduzione delle violenze concordata con gli Stati Uniti, numerosi furono gli attacchi dei talebani contro le forze di sicurezza del Paese, nelle province di Zabul, Ghazni, Farah ed Helmand.

Il 29 febbraio 2020, dopo 18 mesi di negoziazione, gli USA firmarono un accordo di pace con i talebani. L’accordo prevedeva un graduale ritiro delle loro truppe statunitensi dall’Afghanistan, entro 14 mesi e l’instaurazione di un dialogo intra-afghano con il governo di Kabul e il rilascio di 5.000 prigionieri talebani. In cambio i talebani promisero di rilasciare mille esponenti delle forze di sicurezza afgane. Lo scambio di prigionieri doveva avvenire prima del 10 marzo, data inizialmente prevista per l’apertura del negoziato tra i due fronti, ma una serie di dispute rallentò il processo posticipando l’inizio della trattativa interna. I prigionieri talebani furono gradualmente rilasciati, ma gli attacchi nei confronti dei civili e delle forze di sicurezza afghane non si arrestarono. Il 15 luglio il Pentagono annunciò il ritiro dei soldati statunitensi da 5 basi militari dall’Afghanistan così come previsto dagli accordi di pace.

Da marzo 2020, il virus COVID-19 si diffuse per tutto l’Afghanistan, generando effetti negativi sulla situazione socioeconomica del paese, già fragile prima dello scoppio della pandemia. Il ritorno dei rifugiati dal Pakistan e l’Iran, e l’aumento degli sfollati interni in fuga dai conflitti gravò notevolmente sulla diffusione del virus, data la mancanza di appropriate misure di controllo e quarantena.

Il 20 luglio 2020  le forze armate afgane uccisero il leader dei talebani.
Apparve evidente come l’avvio dei negoziati di pace tra le forze afghane ed i talebani fosse stato costantemente messo a rischio. Il Governo rilasciò 4.400 talebani dei 5mila previsti, mentre gli studenti coranici liberarono 864 dei mille detenuti governativi richiesti. I talebani, dichiararono di essere pronti ad avviare i negoziati qualora il Governo avesse rilasciato i restanti 600 prigionieri indicati in una lista fornita al “nemico”. Kabul fece intendere più volte di non voler cedere e chiede una lista alternativa poiché si trattava di militanti pericolosi, pronti a tornare sul campo di battaglia, responsabili di attentati sanguinosi a Kabul. Gli studenti coranici si mostrarono intransigenti. Un circolo vizioso che alimentò la spirale del conflitto.

Nell’aprile 2021, il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, annunciò la sua intenzione ad effettuare un totale ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan entro settembre dello stesso anno.

A giugno 2021, si concluse per l’Italia la missione Resolute Support tramite il rientro dell’ultimo contingente italiano dall’Afghanistan.

Il ritiro delle truppe statunitensi provocò una nuova crescita delle offensive da parte dei Talebani, che conquistarono una cinquantina di distretti (sui 400 complessivi del Paese), assumendo il controllo di postazioni strategiche in prossimità e attorno alle diverse capitali provinciali.

A luglio, una delegazione del governo afgano incontrò i rappresentanti dei talebani a Teheran, in Iran. Le due parti si impegnarono nel perseguire accordi che possano portare al termine dei conflitti.

Le forze militari dei Talebani continuarono però ad avanzare verso il Nord dell’Afghanistan, obbligando i civili ad abbandonare il Paese e i militari filogovernativi a fuggire in Tagikistan e Uzbekistan. Il gruppo rivendicò il controllo sull’85% del territorio.  Molti sono stati i dubbi sulla capacità dell’esercito afgano di reggere l’urto dei talebani in seguito all’evauazione dell’esercito americano.

A luglio 2021, ad aggravare la situazione in Afghanistan, fu un nuovo picco di casi di Covid-19. 

Con la scadenza del ritiro delle truppe militari internazionali sempre più vicina, programmata per gli inizi di settembre, i Talebani avanzarono ulteriormente nel Paese verso la capitale Kabul.

Al 15 agosto 2021, i Talebani completarono la conquista della capitale Kabul e del palazzo presidenziale, dal quale hanno tenuto la loro prima conferenza stampa. La città cadde in mano talebana in poche ore a seguito della fuga del presidente Ashraf Ghani, rifugiatosi prima in Tagikistan e poi in Uzbekistan.  L’aeroporto internazionale di Kabul venne preso d’assalto dalla popolazione in fuga, dove stavano già partendo voli civili e militari per riportare nei propri paesi le missioni diplomatiche e parte dei militari. In serata la situazione nell’aeroporto diventò ancora più tragica, con civili che presero di assalto i voli in partenza.

Nei giorni successivi alla caduta della capitale la situazione presso l’aeroporto rimase caotica. Mentre i vari paesi continuarono le operazioni di rimpatrio dei propri funzionari e militari, molti afgani chiesero di farsi imbarcare sui voli in partenza da Kabul, temendo le rappresaglie dei talebani e il ritorno della Sharia. Contemporaneamente si intensificarono le ondate di persone in fuga dal Paese verso il Pakistan.

Intanto nella città iniziarono le prime ripercussioni sui presunti oppositori del regime e il 21 agosto viene adottato il primo editto (fatwa) per l’applicazione dell’annunciata segregazione uomo-donna.

Il 24 agosto 2021, il vice capo dell’ufficio politico dei talebani afghani, Abdul Salam Hanafi, ha incontrato l’ambasciatore cinese in Afghanistan, Wang Yu, a Kabul. La Cina ha annunciato di avere comunicazioni e consultazioni fluide ed efficaci con i Talebani, e che Pechino intende rispettare l’indipendenza sovrana e l’integrità territoriale dell’Afghanistan e portare avanti una politica di non interferenza negli affari interni dell’Afghanistan. Pechino si mostrò inoltre bendisposta a svolgere un ruolo di collaborazione rispetto al raggiungimento della stabilità in Afghanistan, ponendo tra le condizioni quella di poter investire economicamente nel paese.

Il 26 agosto 2021, nei pressi dell’aeroporto di Kabul avvenne un attacco terroristico da parte di un attentatore suicida, che ha causato diversi feriti e morti, tra cui 60 civili afgani e 13 soldati americani. In seguito l’attacco viene rivendicato da parte del gruppo terroristico dell’Isis-Khorasan, la divisione afgana dello Stato islamico.

Venerdì 27 agosto 2021 si tenne l’ultimo ponte aereo Kabul-Roma.

Il 29 agosto 2021, le forze militari statunitensi fermarono un presunto attacco da parte dell’Isis-K attraverso l’utilizzo di un drone militare, causando però la morte di diversi civili afgani.

Tra il 30 e il 31 agosto, l’ultimo volo militare statunitense lasciò l’aeroporto di Kabul, segnando la fine di 20 anni di presenza degli Stati Uniti in Afghanistan.

Intanto continuò l’avanzata delle forze talebane verso la provincia settentrionale del Panjshir, una delle ultime zone di resistenza ai Talebani. Nonostante la provincia si sia dichiarata aperta al dialogo, continuarono i combattimenti fra le due parti.

All’abbandono definitivo delle truppe statunitensi, l’Afghanistan si ritrovò in mano ai Talebani.

A inizio settembre 2021, forti furono i dubbi sul futuro del Paese. I Talebani avviarono i negoziati e le discussioni per la formazione del nuovo governo.

Il 6 settembre 2021, i Talebani annunciarono di aver preso il controllo totale del Panshir, ultimo avamposto di resistenza in Afghanistan. Tuttavia il Fronte della resistenza nazionale afghana presente nella valle del Panshir dichiarò che la rivendicazione era falsa. 

Il 7 settembre 2021 il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid annunciò i componenti del nuovo governo ad interim dell’Afghanistan durante una conferenza stampa a Kabul.

Sebbene i Talebani a fine agosto avessero garantito la possibilità di lasciare il Paese per tutti coloro in possesso di documenti e visti, due settimane più tardi molte persone si trovarono ancora bloccate e impossibilitate a partire. Il 13 settembre durante una conferenza dell’ONU, i paesi occidentali stanziarono dei fondi da destinare al regime talebano, nella speranza di ottenere garanzie rispetto alla libertà di partire per chi lo desideri.

Con l’apertura delle scuole medie e superiori il 18 settembre, le bambine e le ragazze afgane furono costrette a rimanere in casa: escluse dall’istruzione superiore, a partire dalla classe 7 fino alla 12.

Il giorno prima, la questione dell’accesso all’istruzione per le donne afgane non fu dibattuta nel corso del ventesimo Consiglio dei capi di Stato dei Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), che vide partecipare i paesi geograficamente vicini all’Afghanistan (i fondatori Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan, e gli ultimi tre aderenti: India, Pakistan e Iran). Incontro da cui emersero due direttive: l’appello a un governo realmente tollerante e l’invito agli USA e alla NATO di farsi carico della ripartenza dell’economia afgana e della crisi umanitaria.

Il 12 ottobre si riunì il G20 straordinario con lo scopo di far fronte al nuovo quadro delineatosi in Afghanistan. La questione all’ordine del giorno si incentrò sul come garantire aiuti e promuovere azioni volte alla risoluzione della crisi umanitaria senza però legittimare il governo dei Talebani e le violazioni di diritti da essi perpetrate.

Le soluzioni furono quelle di stanziare fondi per aiuti alla popolazione che arrivarono direttamente attraverso le agenzie delle Nazioni Unite, evitando di farli passare dalle mani dei Talebani. L’intento fu quello di instaurare un dialogo rispetto alla sicurezza internazionale, al terrorismo e al rispetto dei diritti delle donne. Dialogo che però non aveva l’intento di essere inteso come un riconoscimento e una legittimazione del loro operato.

Nel mese di ottobre del 2021 il presidente del World Food Programme denunciò un aggravarsi della situazione in seguito al ritorno dei Talebani anche rispetto all’accesso al cibo, all’inverno e al tasso di povertà in rapido incremento, con conseguenze inevitabilmente legate alla migrazione globale.

I governi europei non sembrarono però focalizzati sulle strategie di accoglienza, bensì orientati a evitare una “crisi migratoria” mandando fondi ai paesi extra-UE affinché fermassero e gestissero la mobilità delle persone. In particolare, l’Iran e il Pakistan sono stati i due paesi più coinvolti in questa piattaforma di gestione esternalizzata delle politiche migratorie. Nella dinamica emersero inoltre i rapporti di denuncia di respingimenti violenti e repressivi di profughi afgani da parte di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, in diversi paesi (Grecia, Croazia, Romania, Bulgaria e Ungheria).

Anche alla frontiera turca i profughi afgani furono respinti, percossi, derubati e subirono violenze, come testimoniato da Human Rights Watch in un rapporto di metà ottobre.

Il 2 novembre lo Stato Islamico di Khorasan (ISKP), affiliato all’ISIS, rivendica l’attentato compiuto all’ospedale Sardar Mohammad Daoud Khan, in cui muoiono almeno 20 persone e ne vengono ferite 50.

Solo tre settimane prima un altro attentato del gruppo alla moschea sciita di Kandahar aveva provocato almeno 63 vittime e più di 80 feriti.

Il mese di novembre fu caratterizzato da un aumento della preoccupazione per l’impatto che siccità e il clima rigido dell’inverno sull’accesso al cibo. La FAO e il World Food Programme evidenziarono che 22,8 milioni di persone furono costrette ad affrontare il rischio di una catastrofe umanitaria che coinvolse dunque più di un afgano su due, crisi che corrispondeva alle fasi 3 (crisi) e 4 (emergenza) della scala relativa alla grave insicurezza sul cibo (scala che va da 1 a 5, con quest’ultimo indicatore che si configura come situazione di carestia).

Il collasso dell’economia interna, il rifiuto da parte degli altri paesi di predisporre aiuti finanziari al governo dei Talebani e il congelamento del denaro afgano deposto nelle banche statunitensi – all’interno di una strategia volta a mantenere potere di contrattazione con i Talebani – completarono un quadro disastroso.

Il 30 novembre fu pubblicata un’ulteriore indagine di Human Rights Watch, “Nessun perdono per quelli come voi”, secondo il quale tra la metà di agosto e la fine di ottobre i Talebani operarono le esecuzioni di più di cento persone tra funzionari, forze dell’ordine e militari appartenenti all’ex regime, solo nelle quattro province in cui l’indagine è stata condotta, smentendo di fatto la supposta realtà dell’amnistia promessa.

Mentre i Talebani annunciarono un decreto contro i matrimoni forzati, mossa finalizzata al riconoscimento internazionale del proprio governo e allo sblocca dei finanziamenti, nel mese di dicembre il Paese continuò a versare in una grave condizione: la carenza di cibo, la mancanza di coperte e alloggi per famiglie e bambini con temperature ben al di sotto degli zero gradi, la mancanza di strumentazione medica adeguata, gli sfollati interni – arrivati a 3 milioni e mezzo – e tutti coloro che partirono, soprattutto attraversando il confine iraniano per affidarsi ai trafficanti, portò organizzazioni internazionali come l’UNHCR e Save the Children a rinnovare l’appello per l’esigenza di immediati interventi per affrontare la situazione.

Alla fine di dicembre il Ministero per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù di Kabul, emanò un decreto che stabilì l’impossibilità per le donne di allontanarsi più di 75 chilometri dalla propria abitazione senza essere accompagnate da un famigliare maschio, oltre all’obbligatorietà di indossare il velo integrale.

Il decreto e la situazione generale in cui versa il Paese, portò molte donne a compiere manifestazioni pacifiche durante il mese di gennaio, con rivendicazioni legate all’accesso all’educazione, al lavoro, al cibo e alle privazioni di libertà. In particolare, il 16 gennaio 2022, durante una di queste manifestazioni a Kabul, le milizie armate dei Talebani risposero puntando le armi, utilizzando taser elettrici e spray chimici e malmenando le manifestanti. Qualche giorno dopo, alcune attiviste vengono sequestrate con un’irruzione in piena notte nelle proprie abitazioni.

Da domenica 23 a martedì 25 gennaio una delegazione di talebani si incontrò a Oslo con i diplomatici euro-occidentali e alcuni rappresentanti della società civile afgana per discutere dei diritti umani, della crisi umanitaria ed economica.

L’11 febbraio 2022 il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, decise di mobilitare la metà dei 7 miliardi di dollari afgani depositati nelle banche statunitensi per far fronte all’emergenza umanitaria. La scelta apparve controversa per due motivi: il primo è che tutti e 7 i miliardi spettavano di diritto al popolo afgano, mentre Biden sembrava voler utilizzare la seconda metà per i risarcimenti alle famiglie vittime dell’attentato dell’11 settembre 2001; il secondo è che l’Afghanistan fu sostanzialmente impossibilitato a ricevere e spendere denaro a causa delle restrizioni economiche e finanziarie.

Il 22 febbraio 2022 iniziò un’operazione di controllo repressivo porta a porta nelle case di Kabul e delle province circostanti con il pretesto di voler individuare ladri, criminali e detentori di armi, costringendo le persone a bruciare o distruggere documenti, libri, strumenti musicali, e tutto ciò che può collegarli a Ong o al governo precedente.

Il 23 marzo 2022, dopo che le scuole erano state riaperte per le ragazze, il regime talebano ritornò sui propri passi impedendo l’istruzione femminile dalla sesta classe in su, provocando così diverse manifestazioni di protesta davanti al Ministero dell’Istruzione.

Nell’aprile 2022 i Talebani vietarono la coltivazione del papavero da oppio, stupefacente di cui l’Afghanistan è il primo produttore mondiale e rispetto al quale il mercato continua a ottenre proventi che corrispondono a circa il 10% del PIL del paese.

Sempre nel mese di aprile un raid pakistano nelle province di Khost e Kunar provocò oltre 47 morti civili, la maggior parte donne e bambini.

Altre 16 persone rimasero uccise in tre esplosioni. La prima è avvenuta nella moschea sciita di Mazar-i-Sharif e ha provocato l’uccisioni di 16 persone e ha visto la rivendicazione da parte dello Stato Islamico. La seconda si è verificata nel quartiere Dasht-e-Barchi di Kabul, popolato dalla minoranza sciita degli Hazara, e ha provocato il ferimento di due bambini, mentre l’ultima ha provocato la morte di 4 persone ed è avvenuta a Kunduz.

Il 7 maggio 2022 i Talebani emanarono un nuovo decreto attraverso il Ministero per la promozione della virtù e la repressione del vizio, imponendo un codice di abbigliamento femminile che prevedeva come «richiesto per tutte le donne afgane rispettabili che vestano lo hijab» (individuando in modo particolare il chador e lo hijab nero come i più appropriati), con punizioni per trasgressioni nei confronti dei mahram (i “tutor” maschi adulti responsabili).

Il decreto ha attraversato il dibattito pubblico afgano e internazionale per le settimane seguenti, causando reazioni di opposizione e resistenza soprattutto da parte del mondo giornalistico in Afghanistan, con una campagna lanciata sui social media da parte dei giornalisti maschi, #FreeHerFace, per dimostrare solidarietà e contrastare il provvedimento del regime.

Il 25 maggio 2022 una serie di esplosioni a Mazar-i-Sharif, rivendicata dall’ISIS-K, e nei pressi della moschea a Kabul provocò 11 vittime.

Il 10 giugno 2022 Human Rights Watch nel suo Report denunciò la detenzione e le torture di alcuni civili della provincia di Panjshir perché accusati di associazione con un gruppo armato dell’opposizione. La situazione della provincia aveva visto un’escalation di violenza dovuta alle azioni delle precedenti settimane del Fronte Nazionale di Resistenza, che aveva attaccato alcuni presidi talebani, a cui il regime ha risposto con l’invio di soldati nelle comunità che si supponeva sostenessero il Fronte. Scenario che ha visto esecuzioni, sparizioni e arresti arbitrari.

Mercoledì 22 giugno 2022 un terremoto di magnitudo 5.9 ha colpito la città di Khost e il confine con il Pakistan, provocando 1.000 morti e più di 1.500 persone ferite. La drammaticità dell’evento si è ha andata a sommare alla situazione politica instabile, alla mancanza di cibo e di facilità di accesso alle cure, oltre a provocare danni a circa 10.000 abitazione lasciando le persone senza un rifugio. I Talebani, a causa del congelamento dei finanziamenti, lanciarono un appello alla comunità internazionale per fornire un’adeguata risposta alla parte di popolazione colpita dalla calamità, con i dati su persone decedute, disperse e ferite che continuano ad aumentare.

Venerdì 30 settembre 2022 un kamikaze ha colpito una scuola a Kabul, situata in un’area a maggioranza musulmana sciita nella parte occidentale della capitale in cui vive la minoranza hazara, con un bilancio di 32 morti e 40 feriti, la maggior parte ragazze. Gli sciiti hazara sono perseguitati da decenni in Afghanistan, poiché considerati eretici sia dai talebani al governo sia dal Daesh.

Mercoledì 5 ottobre 2022, un kamikaze ha colpito la moschea Al-Fatah a Kabul, il bilancio è stato di 2 morti e 18 feriti nel complesso degli edifici del ministero, proprio nel centro della capitale. Circa il 90% dei ricoveri in ospedale è dovuto alla guerra e ai vari numerosi attentati.

Domenica 13 novembre 2022, Haibatullah Akhundzada, leader dei talebani, ha ordinato la piena applicazione della legge islamica, prevedendo esecuzioni pubbliche, lapidazioni, fustigazioni e mutilazioni per “ladri, rapitori e sovversivi”.

Martedì 20 dicembre 2022, è  stato imposto il divieto per le donne di frequentare l’Università, privando loro del diritto allo studio. Un ulteriore divieto ha impedito loro anche di lavorare nelle Ong. Questo per via del mancato uso dell’hijab e del mancato rispetto di vari regolamenti e restrizioni che le riguardano.

Mercoledì 11 gennaio 2023 l’Isis-K, noto come Stato Islamico nella Provincia di Khorasan, ha colpito l’Afghanistan ben due volte, prima in un posto di blocco dell’aeroporto militare della città e poi con un attacco kamikaze vicino al ministero degli Esteri talebano dove era attesa la delegazione cinese. Secondo la missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), nel periodo che va da metà agosto 2021 a metà giugno 2022, le vittime civili di attacchi riconducibili a gruppi armati sono state circa 2106.

Ad aggravare la crescente instabilità del paese è stato il clima gelido e le infezioni dovute alla malasanità che, secondo l’UNICEF, dall’inizio del 2023 hanno causato la morte di centinaia di bambini

Martedì 4 aprile 2023 è stato imposto il divieto a tutte le operatrici umanitarie di lavorare. Le organizzazioni internazionali come Save the Children e World Vision, ma non solo, hanno fatto richiesta alle autorità afghane di revocarlo.

Mercoledì 5 luglio 2023, un nuovo divieto ha impedito alle donne di andare dal parrucchiere, lo stesso anche per i saloni di bellezza. Questi ultimi erano anche tra i pochi lavori che ancora potevano dare alle afgane una fonte di reddito. I talebani non hanno fornito motivazioni o spiegazioni sul perché del nuovo divieto.

Sabato 7 ottobre 2023 un terremoto di magnitudo 6,3 ha colpito l’area di Herat, una delle province afghane più popolose, provocando oltre 2.000 morti e 9.000 feriti. Tale tragedia ha esacerbato una situazione già di per sé drammatica in cui 6 milioni di persone a rischio carestia e 29 milioni dipendenti dagli aiuti umanitari per la loro sopravvivenza dopo il ritorno al potere da parte dei Talebani nell’agosto 2021. Lo United States Geological Survey ha riferito che alla prima grande scossa di magnitudo di 6,3, si sono susseguite altre tre forti scosse di assestamento di magnitudo 6,3, 5,9 e 5,5. Il terremoto ha distrutto interi villaggi e abbattuto migliaia di case fatte in pietra e mattoni di fango.

Tre persone hanno perso la vita e dodici sono rimaste ferite la mattina di giovedì 21 marzo 2024 in un attentato suicida davanti a una banca a Kandahar, nel sud dell’Afghanistan. L’attacco è stato attribuito al gruppo jihadista dello Stato islamico.

Martedì 20 aprile 2024 in una moschea di Shahrak, nella provincia di Herat nell’ovest dell’Afghanistan, un uomo ha fatto irruzione armato e ha sparato contro i fedeli riuniti in preghiera. Sei persone sono morte a causa dell’attacco. La moschea era frequentata da vari membri della minoranza musulmana sciita, spesso bersaglio di attacchi da parte dello Stato Islamico in Afghanistan a maggioranza sunnita. L’attacco, non ancora rivendicato, è stato attribuito dalle autorità afgane all’ISIS.

Dal 10 maggio 2024 devastanti piogge torrenziali hanno colpito il nord-est dell’Afghanistan provocando oltre 300 morti e un numero indefinito di dispersi. La provincia più colpita è stata quella di Baghlan dove 40mila bambini sono rimasti senza casa. Diverse organizzazioni umanitarie sono intervenute sul posto, ma a causa dell’interruzione delle comunicazioni le operazioni di soccorso sono state difficili da coordinare. Le autorità talebane hanno riferito che più di 12mila case sono state distrutte e circa 80mila persone sono state colpite. Molte infrastrutture, quali ponti, strade, scuole e ospedali sono crollati. Gravi malattie come polmoniti e diarrea hanno iniziato a diffondersi tra i bambini a causa dell’assenza di acqua potabile.

Mercoledì 17 luglio 2024, un altro evento atmosferico dopo quello del 10 maggio con forti piogge ha colpito la zona orientale del Paese. Secondo le autorità talebane il nuovo drammatico bilancio è stato di 40 morti e circa 350 feriti. Oltre 400 case e 60 pali dell’elettricità sono stati distrutti in tutta la provincia e la corrente è saltata in molte aree della città di Herat.

A una situazione di per sé già molto complessa dal punto di vista umanitario a causa della situazione politica, economica e sociale, si vanno ad aggiungere le conseguenze dei cambiamenti climatici che rendono l’Afghanistan e la sua popolazione, sempre più vulnerabili.

CONTESTO SOCIO-CULTURALE

Il principale gruppo etnico è costituito dai pashtun (42% della popolazione), poi ci sono i tagiki (27%), gli hazara (9%), gli uzbeki (9%), gli aimak (4%), i turkmeni (3%), i baluchi (2%) e altri gruppi minoritari (4%).
L’art. 16 della Costituzione afghana del 2004 riconosce come lingue ufficiali dello Stato il dari (molto simile alla lingua iraniana farsi) e il pashto. Aggiunge, inoltre, che nelle aree in cui la maggior parte della popolazione parla uzbeko, turkmeno, balochi, pashai, nuristani o pamiri, tali lingue potranno essere riconosciute come “terza lingua ufficiale” e il loro utilizzo sarà stabilito dalla legge.

Si stima che l’80% della popolazione afgana sia composta da musulmani sunniti, adepti della scuola di giurisprudenza di Hanafi. Il gruppo etnico dei pashtun è, per la maggior parte, composto da sunniti, ad eccezione della tribù pashtun-turi i cui membri sono sciiti. Il resto della popolazione (il 19%), in particolare il gruppo etnico hazara, professa per lo più la religione musulmana sciita. L’1% della popolazione segue altre religioni.

Nonostante i tentativi, durante gli anni del comunismo, di secolarizzare la società afgana, l’islam pervade tutti gli aspetti della vita. La fede religiosa è servita come base principale per esprimere l’opposizione al comunismo e all’invasione sovietica. Religione, tradizione e i codici islamici, insieme con le pratiche tradizionali e tribali, svolgono un ruolo fondamentale tanto nella disciplina della condotta personale quanto nella risoluzione delle controversie. La società afgana è ampiamente basata su gruppi, legati da vincoli di parentela, che seguono i costumi tradizionali e le pratiche religiose. Ciò avviene un po’ meno nelle aree urbane.

La Costituzione dell’Afghanistan (2004) riconosce i pashtun, i tagiki, gli hazara, gli uzbeki, i turkmeni, i balochi (o baluchi), i pashai, i nuristani, gli aimaq (o aymaq), gli arabi, i kyrghizi (o qirghiz), i qizilbash, i gujur, i brahui (o brahwui) come gruppi etnici presenti nel territorio afgano aventi diritto alla cittadinanza afgana.

Gruppi etnici

• Pashtun: I pashtun (anche chiamati pushtan, paktun o pathan) rappresentano il gruppo etnico maggioritario in Afghanistan, corrispondendo a circa il 42% degli abitanti del Paese. Vivono prevalentemente nelle zone a sud e a est dell’Afghanistan. Come sopra accennato, la stragrande maggioranza dei pashtun è musulmana sunnita (scuola Hanafita) e parla il pashto. Alcuni parlano anche il pakhto: idioma che, al pari del pashto, deriva dal dialetto iraniano mescolatosi con le lingue indo-europee. I pashtun sono di solito capaci di esprimersi anche in farsi laddove sia necessario, ad esempio negli affari commerciali.
Si suppone che i pashtun siano discendenti degli iraniani dell’est immigrati nella zona dall’Iran. Tuttavia, esiste anche un’interessante leggenda che sostiene che essi provengano da una delle tribù di Israele.
La struttura sociale dei pashtun si basa sul codice pashtunwali (o pukhtunwali), che è un misto tra un codice tribale d’onore e interpretazioni locali della legge islamica.
Il codice prescrive di parlare in pashto e di conformarsi alle consuetudini stabilite. Essere ospitali, proteggere gli ospiti, difendere la proprietà, mantenere l’onore della famiglia e tutelare le donne della famiglia sono alcuni dei più importanti principi per i pashtun. La risoluzione di dispute e le decisioni prese a livello locale sono affidate al consiglio tribale jirga, mentre la donna è esclusa da qualsiasi questione che non riguardi la vita domestica. Alle donne viene richiesto di indossare il burka: un velo che copre completamente il corpo. Culturalmente i pashtun apprezzano la musica, la danza, la poesia e la narrativa. La maggior parte dei pashtun pratica attività agricola e di allevamento; altri, invece, commerciano i prodotti provenienti da queste e da altre attività.
Le difficili condizioni di vita, la mancanza di acqua pulita e di cure mediche contribuiscono a una breve aspettativa di vita (circa 46 anni). Le condizioni si presentano leggermente migliori per coloro che vivono a Kabul.
I pashtun sono attualmente, ma anche storicamente, il gruppo etnico politicamente più potente in Afghanistan. Tuttavia, nonostante la loro passata dominazione politica, i pashtun non hanno mai costituito un gruppo omogeneo e molti sono diventati vittime di oppressione da parte delle élites delle loro stesse comunità. Il potere e la leadership individuale sono, forse, l’elemento che maggiormente divide il popolo pashtun, non solo in diverse tribù ma anche in numerose sotto-tribù, ciascuna chiusa all’interno dei propri confini. Nella storia, le interferenze hanno causato spesso conflitti tra le sotto-tribù. Eppure, nonostante le loro divisioni interne, si sono spesso uniti in un unico fronte quando si è trattato di opporsi ad interferenze esterne o poste in essere da elementi non pashtun del governo centrale.

• Tagiki: rappresentano il 27% della popolazione afgana e costituiscono il secondo gruppo etnico più importante del Paese dopo i pashtun. Essi fanno prevalentemente parte dell’élite afgana, con un considerevole volume di ricchezza accumulata all’interno della comunità. Proprio grazie alle ricchezze e al grado di istruzione essi esercitano una significativa influenza politica in Afghanistan. Essendo originari dell’Asia centrale mantengono legami molto forti con i 4 milioni di persone di etnia tagika che vivono in quella vicina regione e nello Stato del Tagikistan.
Mentre nell’era pre-sovietica questo gruppo occupava, in gran parte, le aree urbane, vivendo nei territori intorno a Kabul e nella regione montuosa di Badashkshan (Nord-Est), attualmente la sua presenza si è diffusa in diverse zone del Paese, anche se si concentra soprattutto a Nord, Nord-Est e Ovest dell’Afghanistan. La presenza dei tagiki nella parte nordorientale ha subito considerevoli variazioni durante il periodo del regime talebano, da quando, cioè, questi ultimi e le forze di opposizione hanno iniziato a combattere per il controllo del territorio.
La maggioranza dei tagiki è di fede musulmana sunnita, anche se una piccola parte, che vive in prossimità della città di Herat, è sciita (aderente alla dottrina del dodicesimo imam). I tagiki parlano una particolare forma di lingua dari, il dialetto farsi, molto vicina alla lingua nazionale iraniana.
A differenza dei pashtun non hanno una specifica struttura sociale e i legami di fedeltà dei tagiki afgani si sviluppano intorno al ruolo centrale della famiglia e del villaggio.
I tagiki sono molto attivi politicamente in Afghanistan. Nel 1992, la comunità, rappresentata dal partito Jami’iat-i-Islami e sotto la guida di Burhanuddin Rabbani, ha assunto il governo del Paese, in seguito agli accordi di Peshawar. Rabbani è stato poi destituito nel 1996 dai Talebani che hanno portato il Paese alla guerra civile.
In seguito i tagiki si sono posti alla guida dell’Alleanza del Nord (movimento nato dall’unione dei gruppi di opposizione combattenti contro i Talebani). Durante gli anni del regime talebano, i tagiki sono stati tra i gruppi etnici perseguitati, molti membri sono stati uccisi dopo la presa di Mazar-I-Sharif, nel 1998.
Come descritto in precedenza, nel 2001 – a seguito degli attacchi dell’11 settembre a New York – la coalizione internazionale guidata dagli USA ha abbattuto il regime talebano accusato di fornire protezione ai leader di Al-Qaeda e ha collaborato con l’Alleanza del Nord, i cui membri hanno partecipato al governo provvisorio.
I tagiki sono rappresentati a livello nazionale da una varietà di organizzazioni e partiti politici anche se l’organizzazione dominante continua ad essere Jamiat-e-Islami (Società Islamica).
La comunità tagika ha mostrato preoccupazione rispetto alla possibile partecipazione dei Talebani nei negoziati di pace, temendo discriminazioni e rivalse da parte talebana dato l’impegno in prima linea svolto nella lotta contro questi ultimi. Tali timori sono stati in qualche modo confermati dall’uccisione (a settembre del 2011) di Burhanuddin Rabbani: ex Presidente, leader del partito Jamiat-e-Islami e Presidente dell’Alto Consiglio per la Pace dell’Afghanistan. Rabbani era stato incaricato dal governo di negoziare la pace con i Talebani (Vd. paragrafo “Ultimi avvenimenti” della sezione “Contesto storico”).

• Hazara: sono circa 2,7 milioni in Afghanistan. Prima del XIX secolo erano una delle più grandi etnie e rappresentavano il 67% della popolazione. Più della metà è stata massacrata nel 1893, come risultato di un’azione politica. Oggi costituiscono il 9% della popolazione.
La maggioranza degli hazara vive nell’Hazarajat (o Hazarestan), terra degli hazara, cioè nella zona delle montagne rocciose collocate nel cuore dell’Afghanistan, in un’area di circa 50.000 km2; altri vivono nelle montagne del Badakhshan. A seguito della campagna di Kabul contro gli hazara alla fine del XIX sec., molti di essi si stanziarono ad Ovest nel Turkestan, nelle province Jawzjan e Badghis. Gli hazara ismaeliti, una minoranza religiosa appartenente a questa etnia, vivono nelle montagne dell’Hindu Kush. Gli ultimi vent’anni di guerra hanno spinto molti hazara lontano dalle loro terre d’origine per stabilirsi nelle zone periferiche del Paese, in prossimità dell’Iran e del Pakistan. Esiste persino una numerosa comunità hazara transfrontaliera, che ha costituito un gruppo etnico influente a Quetta, città di confine pakistana.
Gli hazara parlano l’hazaragi, un dialetto del dari (idioma persiano) e la stragrande maggioranza segue lo sciismo (aderente alla dottrina del dodicesimo imam). Un numero significativo è seguace della setta ismailita, mentre una minoranza si professa sunnita. All’interno della cultura afgana gli hazara sono noti per la loro musica, i versi e i proverbi, dai quali trae origine la loro poesia. La musica e l’arte poetica sono essenzialmente folkloristiche, tramandate oralmente di generazione in generazione.
Nel 1880 la comunità hazara era costituita da nobiltà terriera, contadini e artigiani. La società era divisa in classe dominante e dominata, la cui appartenenza si basava sulla proprietà dei mezzi di produzione (bestiame, terreni e acqua).
Nel tempo si è assistito ad un graduale declino dello status degli hazara che oggi occupano gli strati inferiori della gerarchia sociale dell’Afghanistan moderno. Il loro impiego, soprattutto in lavori che richiedono manodopera non qualificata, ha determinato un’ulteriore stigmatizzazione all’interno della società, come ben evidenzia il bassissimo tasso di matrimoni interetnici con gli hazara. Di conseguenza essi sono rimasti relativamente esclusi dall’influenza di altre culture afgane e la loro identità è rimasta sostanzialmente immutata.
Nelle famiglie hazara il marito è considerato il capo famiglia, tranne nei casi di morte del coniuge, quando il suo posto è assunto dalla moglie. Quando ciò avviene, nei nuclei familiari poligami, la moglie più anziana succede al marito defunto fino a quando il figlio primogenito non raggiunge la maggior età.
A livello nazionale, gli hazara hanno sviluppato una maggiore attenzione riguardo ai diritti delle donne in materia di educazione e accesso alle cariche pubbliche. Le donne hazara istruite, in particolare quelle che sono tornate dall’esilio in Iran, sono attive quanto gli uomini sia in ambito politico che nell’impegno civico. Inoltre, le famiglie hazara incoraggiano sempre di più le proprie figlie a studiare.
Gli hazara sciiti sono storicamente la minoranza etnica più perseguitata del Paese e hanno sperimentato pochi miglioramenti nella loro situazione, nonostante i cambiamenti in corso nell’odierno Afghanistan. Costretti a migrare a Kabul nella seconda metà del XX secolo a causa delle persecuzioni, la loro difficile condizione socio-economica ha originato una divisione, non solo etnica ma anche di classe, tra loro e il resto della società urbana afgana.
Negli anni ’60 e ’70, pressioni economiche e repressioni sociali e politiche hanno indotto questa etnia a unirsi ad altre minoranze sciite e ad avere un ruolo di rilievo nella guerra civile protrattasi negli ultimi due decenni.
I Talebani non sono stati i primi a istigare la persecuzione contro gli hazara, essa infatti esiste da centinaia di anni, ovvero da quando sono stati allontanati dalle loro terre, venduti come schiavi e privati della possibilità di accedere ai servizi riservati alla maggioranza della popolazione.
Uno dei principali fattori di discriminazione nei loro confronti è legato al loro credo religioso.
A seguito della caduta del regime talebano, nel 2001, si è assistito a un miglioramento della situazione politica ed economica degli hazara. Sono una delle minoranze etniche riconosciute dalla Costituzione e godono del diritto di cittadinanza.
Il Presidente Karzai ha nominato alcuni hazara come membri del suo governo e varie iniziative sono state prese per rinvigorire l’economia della zona dell’Hazarajat. Tuttavia, le politiche di recupero non hanno apportato considerevoli miglioramenti nelle loro condizioni economiche. Non sembra essere affatto diminuita, infine, la discriminazione nei confronti degli appartenenti a quest’etnia.

• Turkmeni: vivono nella parte nord dell’Afghanistan. Sono di religione musulmana sunnita (tradizione Hanafi). Inizialmente organizzati in semplici società tribali, negli ultimi anni hanno adottato uno stile di vita semi-nomade. Oltre all’attività agricola, i turkmeni si dedicano all’allevamento e all’artigianato. La produzione di cotone in particolare ha contribuito allo sviluppo economico di questa comunità. Una delle più fiorenti attività è la produzione di tappeti svolta soprattutto dalle donne. A causa della loro relativa prosperità, i turkmeni come gli uzbeki non sono stati dipendenti dal governo centrale. Tuttavia l’economia del nord dell’Afghanistan è stata seriamente danneggiata dalla conquista talebana del 1998. A livello politico, i turkmeni hanno mantenuto una posizione neutrale durante i decenni di conflitto in Afghanistan. Di conseguenza, non hanno avuto personalità autorevoli o signori della guerra che li rappresentassero politicamente durante e dopo la guerra civile e durante il processo di ricostruzione. Perciò sono rimasti in disparte rispetto alle principali questioni politiche e sociali dell’Afghanistan; sono stati storicamente esclusi dai processi decisionali e non considerati dalla classe al potere. Non hanno avuto rappresentanti che promuovessero i loro diritti e che fossero presenti nelle strutture amministrative.
La prima volta in cui i turkmeni furono rappresentati nel governo afgano è stata nel 2004 con Nur Muhammad Qargin, nominato Ministro dell’educazione. Di quest’ultimo introdusse un progetto finalizzato a fornire libri di testo in lingua turkmena. I turkmeni infatti studiano generalmente testi in lingua dari, così come fanno molti altri gruppi etnici minori presenti in Afghanistan.

• Balochi: contano circa 597.000 persone e rappresentano il 2% della popolazione afgana. Fanno parte di una più ampia comunità di circa 8 milioni di persone, il 70% dei quali vive nelle zone di frontiera con il Pakistan, mentre la percentuale residua si trova in Iran. La piccola comunità che vive in Afghanistan si è stanziata nei territori del sud e del sud-ovest, nelle province di Hilmand e Faryab. Pratica l’islam sunnita e si esprime in lingua Brahui (conosciuto anche come Brahuis or Brahui Baluchis).
Le principali attività economiche svolte dai Balochi sono l’agricoltura e l’allevamentoTradizionalmente nomadi, hanno preservato le loro antiche strutture sociali patriarcali. Le loro conoscenze hanno permesso ai balochi di mantenere un certo grado di autosufficienza: costruiscono autonomamente le proprie case e tutti gli strumenti necessari alla vita quotidiana. Producono tappeti per il commercio o per l’utilizzo domestico. Le loro attività agricole sono organizzate sulla base di una stretta divisione del lavoro tra uomini e donne. Le donne sono impegnate nell’attività di trebbiatura e selezione del raccolto, mentre gli uomini si occupano dell’aratura e della semina. In coerenza con le loro abitudini nomadi, i terreni non sono di proprietà privata ma appartengono all’intera comunità.
I Baluchi hanno un forte senso di appartenenza etnica che si è espresso, negli anni, con forti ribellioni contro i governi centrali dei diversi Paesi in cui sono presenti. Le loro richieste sono legate al rispetto della propria autonomia e autodeterminazione, fino alla volontà di costituire lo Stato indipendente del Baluchistan. Queste rivendicazioni hanno gradualmente condotto all’attuazione, nei confronti di questa etnia, di politiche di repressione da parte del Pakistan, dell’Iran e dell’Afghansitan.

• Aimaq: vivono principalmente nella zona stepposa nel nord-ovest dell’Afghanistan e parlano un dialetto persiano comprensivo di vocaboli turchiTradizionalmente nomadi, negli ultimi anni hanno gradualmente iniziato ad assumere uno stile di vita semi-nomade, con spostamenti solo in alcune stagioni dell’anno. La loro struttura sociale si basa sulla famiglia patriarcale e le loro principali attività economiche sono la produzione di tappeti e l’agricoltura. Storicamente gli aimaq hanno partecipato alla difesa dello Stato contro l’invasione sovietica e sono stati attivi durante la guerra civile sostenendo i Mujahidin. Essendo un gruppo relativamente piccolo e diviso, senza una vera base territoriale, gli aimaq non hanno mai avanzato pretese di indipendenza. Il loro profilo nomade e tribale ha limitato fortemente ogni tipo di partecipazione politica o amministrativa. Di conseguenza, le difficoltà relative alle loro dure condizioni di vita non hanno mai trovato grande espressione o risonanza a livello politico.

ORDINAMENTO DELLO STATO

L’Afghanistan è una Repubblica Islamica presidenziale (de iure), ma con la presa del potere da parte dei Talebani nell’agosto del 2021, che ha previsto la sospensione della Costituzione e l’insediamento dell’Emirato Islamico, è diventata una Teocrazia islamica sotto dittatura totalitaria de facto.

Il Presidente viene eletto direttamente dal popolo così come i rappresentanti delle due Camere che compongono il Parlamento. La Camera del Popolo (Wolesi Jirga) è composta da 250 seggi e viene eletta dagli elettori delle 34 province del Paese. La Camera degli Anziani (Meshrano Jirga) si compone di 102 seggi che sono suddivisi tra i rappresentanti dei Consigli Provinciali e Distrettuali, mentre altri seggi sono designati dal Presidente.
Il Governo è composto da 25 ministri che, ai sensi della Costituzione, sono nominati dal Presidente su approvazione del Parlamento.

L’ultimo presidente fino alla presa del potere da parte dei talebani, Ashraf Ghani Ahmadzai. Ghani è stato eletto per due mandati presidenziali dopo aver nuovamente vinto le elezioni nel febbraio 2020. Ghani era stato eletto presidente nel 2014 come successore a Hamid Karzai, primo presidente dalla caduta dei Talebani nel 2001.

DIRITTI UMANI

Diritto alla salute

L’articolo 52 della Costituzione afghana del 2004 afferma che lo Stato deve fornire gratuitamente a tutti i cittadini assistenza sanitaria preventiva e trattamento delle malattie, nonché strutture mediche, in conformità con le disposizioni di legge”. Tuttavia, lo stato della sanità in Afghanistan continua a peggiorare a causa del ritorno dei talebani al potere, dei disastri naturali e delle epidemie. L’aumento della disoccupazione ha ridotto l’economia delle famiglie provocando, a catena, casi di grave malnutrizione e infezioni (così come il morbillo, che ha causato la morte di centinaia di bambini afghani). Lo spostamento verso le strutture sanitarie ha un costo ed è una spesa che non possono permettersi tutti, così come i medicinali, che di per sé scarseggiano. 

La situazione diviene sempre più critica per le donne  poiché, a causa delle restrizioni imposte agli operatori sanitari di sesso maschile di non curare donne e ragazze, al momento non hanno accesso ad un’assistenza sanitaria adeguata. Il fatto che le donne necessitino di un mahram (un tutore di sesso maschile) per spostarsi rende l’accesso ai pochi centri di cura ancora più difficile.

LIBERTÀ FONDAMENTALI

Libertà d’associazione e d’assemblea

L’articolo 35 della Costituzione dell’Afghanistan tutela le libertà di associazione e di assemblea e il governo, in generale, rispetta questi diritti. Tuttavia esistono alcuni fattori che, a volte, ne impediscono l’esercizio. La mancanza di sicurezza, l’interferenza da parte delle autorità locali e delle forze dell’ordine costituiscono, ad esempio, un impedimento alla libertà di assemblea in alcune zone della nazione.
Per quanto concerne la libertà di associazione, una legge del 2009 sui partiti politici impone a questi ultimi di registrarsi presso il Ministero della Giustizia e richiede anche che l’azione perseguita dai partiti non abbia obiettivi contrari all’Islam. Alcune disposizioni, tuttavia, rendono complicata la registrazione dei partiti: per esempio si richiede che questi abbiano almeno 10.000 membri regolarmente iscritti. A livello provinciale, in molte zone del Paese, le violenze poste in essere dalle forze antigovernative hanno, di fatto, ostacolato la libertà dei partiti e dei candidati di condurre la loro attività politica.

Con il reinsediamento del regime dei Talebani le manifestazioni pacifiche hanno visto una reazione repressiva con l’utilizzo di spray al peperoncino, gas lacrimogeni, armi da elettroshock e armi da fuoco. All’inizio di settembre 2021 i Talebani hanno messo a bando assemblee non autorizzate.

In generale, dopo il 15 agosto il diritto di associazione non è più stato rispettato dai Talebani.

Libertà di espressione e di stampa

L’articolo 34 della Costituzione afgana prevede la libertà di espressione e di stampa.
Inoltre, una versione emendata della legge sui mass media, garantisce ai cittadini di aver accesso all’informazione e vieta la censura. Nonostante le previsioni legislative, il governo pone di fatto molte restrizioni a queste libertà.
Le autorità spesso approvano specifici regolamenti o ricorrono all’uso di pressioni e minacce per evitare che si possa esercitare il diritto di critica. La libertà di espressione è maggiormente limitata a livello provinciale, dove i “signori della guerra” detengono la proprietà di molte emittenti e giornali.
Tuttavia, alcuni giornalisti indipendenti e scrittori hanno potuto, comunque, pubblicare riviste e bollettini, anche se la loro diffusione è stata generalmente limitata alla città di Kabul. La carta stampata, più degli altri mezzi di comunicazione, riesce a trattare gli argomenti legati agli sviluppi interni al Paese.
Inoltre, malgrado le numerose difficoltà, i media indipendenti riescono ad essere abbastanza attivi e a rispecchiare le differenti opinioni politiche.
Nonostante questi aspetti di relativa apertura, diversi sono i rapporti che descrivono un ambiente molto pericoloso per gli operatori della comunicazione. Spesso anche quando questi non rappresentano un vero e proprio obiettivo, possono rimanere vittime di attentati. Minacce, violenze e intimidazioni sono largamente utilizzate nei confronti dei giornalisti che, quindi, restano soggetti particolarmente vulnerabili a maltrattamenti fisici o a pressioni psicologiche da parte di diversi attori (compresi il governo centrale e i governi provinciali), allo scopo di influenzare i contenuti delle notizie riportate. Spesso, la combinazione tra azioni repressive attuate da forze governative e da gruppi armati, insieme con i tentativi di manipolazione posti in essere da gruppi stranieri, impediscono di fatto ai media di operare liberamente.
Alcuni osservatori sostengono che spesso i giornalisti praticano un’auto-censura su alcuni temi per paura di rappresaglie da parte dei funzionari della polizia provinciale o di famiglie potenti. Si sono verificati casi, infatti, in cui questi ultimi hanno utilizzato violenze, intimidazioni o hanno agito contro i giornalisti di rettamente presso le emittenti.
Il Ministero dell’Informazione e della Cultura (MOIC) ha l’autorità di regolamentare la stampa e i media, ma anche il Ministero degli Affari Religiosi e il Consiglio degli Ulema (composto dai leader religiosi del Paese) possono tentare di restringere l’azione dei media. Ad esempio, gli Ulema controllano che non vengano diffusi messaggi “anti-islamici” o immorali.
I giornalisti ricevono minacce non solo da parte di soggetti statali ma anche da parte dei Talebani o di altri gruppi ribelli affinché non vengano pubblicate testimonianze favorevoli al governo. Inoltre, la presenza di organi di stampa controllati da questi movimenti continua a rappresentare un elemento di preoccupazione e a restringere notevolmente lo spazio operativo dei giornalisti.

Il regime dei Talebani insediatosi ad agosto 2021 ha iniziato a ricercare giornalisti con controlli nelle abitazioni private. A fine ottobre dello stesso anno più di 200 agenzie di comunicazione erano state chiuse, e il Comitato afgano per la sicurezza dei giornalisti (Afghan Journalist Safety Committee) ha annunciato l’uccisione di almeno 12 giornalisti e l’aggressione di 230 nei dodici mesi precedenti a novembre 2021.
Infine, il Comitato di Protezione dei Giornalisti (Committee to Protect Journalists – CPJ) ha riportato che operatori della comunicazione, sia del luogo che stranieri, continuano ad essere a rischio di rapimento.

Particolarmente colpite sono poi le donne che lavorano nel settore. Queste continuano a essere una categoria decisamente vulnerabile in un Paese in cui sono tra i principali bersagli della propaganda fondamentalista, che circola ampiamente in diverse regioni. 

Nel 2021, l’Afghanistan si è classificato 122 su 180 paesi nella classifica mondiale per la libertà di stampa. 

Libertà di religione

La Costituzione dell’Afghanistan, all’articolo 2, riconosce l’Islam come religione di Stato e specifica che “nessuna legge può essere contraria al credo e alle disposizioni della religione islamica”. Tuttavia, l’articolo 2 prevede anche che “i fedeli di altre religioni siano liberi, nei limiti previsti dalla legge, di esercitare i loro diritti religiosi”.

Tuttavia, la stessa Costituzione e diverse leggi limitano la libertà religiosa e impongono restrizioni ai culti diversi dall’Islam.

Ad esempio, il codice penale include punizioni per aggressioni verbali e fisiche a un seguace di qualsiasi religione e punizioni per insulti o distorsioni diretti all’Islam.

La conversione dalla religione islamica ad altre fedi viene interpretata – dai religiosi dell’islam sunnita e sciita, ma anche dai cittadini – come in netto contrasto con i principi islamici. Essa è considerata un atto di apostasia e un crimine contro l’islam e potrebbe essere punito con la morte se il convertito non decide di ritrattare.

Molti fedeli delle comunità baha’is e cristiane non dichiarano apertamente la loro appartenenza religiosa né praticano pubblicamente il culto, a causa del timore di subire persecuzioni, discriminazioni, di essere arrestati o uccisi.

In quest’ ambito con una popolazione a maggioranza islamica, le relazioni con le diverse fedi continuano ad essere molto difficili. I gruppi religiosi minoritari continuano a subire persecuzioni e discriminazioni, affetti anche dalla mancanza di un governo in grado di recepire i loro bisogni di protezione.

Il 15 agosto 2021 i Talebani prendono il controllo di Kabul e dichiarano l’istituzione di un “Emirato Islamico” in tutto il paese la cui modalità di governo corrisponderà all’interpretazione talebana della shari’a. Ciò porta molti membri di altre religioni – sikh, induisti e cristiani – a lasciare il paese per il timore di poter subire altre persecuzioni e violenze.

Esecuzione extragiudiziali e detenzioni arbitrarie

La Costituzione Afgana afferma che nessuno potrà essere perseguito, arrestato o detenuto senza un giusto processo legale, né potrà essere sottoposto a punizioni contrarie alla dignità umana.

Secondo il rapporto di Amnesty International “Your sons are in the Mountains”: The collective punishment of civilians In Panshir by the Taliban, pubblicato il 7 giugno 2023, sono diventate ormai sistematiche le violazioni dei diritti umani nella regione del Nord-Est afghano del Panshir da parte dei Talebani. Sono state documentate esecuzioni extragiudiziali, torture, arresti e detenzioni arbitrarie di massa. Dopo l’agosto del 2021, i membri delle forze di sicurezza dell’ex governo nazionale sono fuggiti nella regione del Panshir con attrezzature e armi e si sono uniti al Fronte di Resistenza Nazionale. Da allora i Talebani hanno preso di mira la popolazione civile di questa provincia per costringerla alla sottomissione e all’obbedienza. Hanno arrestato tutti gli uomini adulti e i ragazzi dei villaggi del Panshir, li hanno detenuti senza accusa e li hanno sottoposti a violenza e abusi. Hanno imposto il coprifuoco notturno per limitare i movimenti delle persone, sequestrato le case dei cittadini locali e impedito ai pastori di accedere ai pascoli. Il Rapporto documenta diversi casi di esecuzioni extragiudiziali di combattenti del Fronte di Resistenza Nazionale da parte dei fondamentalisti islamici. Uno dei casi più documentati è quello avvenuto a settembre 2022 quando un gruppo di sei persone è stato giustiziato su una montagna nel distretto di Darah, nel Panshir. Tra le altre vittime vi sono contadini e allevatori torturati a morte perché, secondo i Talebani, lavoravano tra le montagne senza il permesso dei funzionari locali. Da quando sono tornati al potere, i Talebani hanno sistematicamente trattenuto uomini e ragazzi per la loro sospetta affiliazione con il Fronte di Resistenza Nazionale, catturando anche i familiari dei sospetti combattenti del Fronte ed eseguendo torture e uccisioni. Le forze talebane hanno giustiziato in via extragiudiziale dozzine di detenuti dei distretti di Khenj, Darah e Rokha nella Provincia di Panjshir tra il 12 e il 14 settembre 2022.

Tra le altre tattiche di intimidazione adottate vi sono il sequestro e la distruzione di beni di proprietà dei cittadini locali e l’imposizione di restrizioni ai movimenti. Numerose abitazioni civili sono state sequestrate e utilizzate dai Talebani per periodi prolungati, provocando una massiccia fuga di civili. Hanno, inoltre, regolarmente convertito tutte le scuole in basi militari. L’uso delle scuole da parte dei talebani per scopi militari esisteva già prima che prendessero il potere nel Paese nell’agosto 2021. La maggior parte delle strutture scolastiche sono state utilizzate come centri di detenzione e basi strategiche per gli interrogatori e punizioni collettive.

Le forze talebane hanno compiuto omicidi e attuato sparizioni forzate nei confronti di ex funzionari governativi e personale di sicurezza del governo precedente. Nel rapporto 2023 a cura della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) vengono denunciate 218 esecuzioni extragiudiziali, 14 sparizioni forzate e oltre 144 casi di tortura e maltrattamenti di detenuti a partire dall’agosto 2021. La tortura viene utilizzata come mezzo sistematico nei confronti dei detenuti, in particolare da parte dell’agenzia di intelligence dei talebani (GDI) che utilizza metodi di tortura come il waterboarding (annegamento simulato). L’UNAMA (la United Nations Assistance Mission in Afghanistan) ha inoltre segnalato vari casi di fustigazioni pubbliche ai danni di uomini, donne e  ragazzi per reati di droga, gioco d’azzardo e cosiddetti crimini morali

Soggetti vulnerabili

Donne

I diritti delle donne e delle ragazze in Afghanistan hanno avuto un’evoluzione complessa. Fin dall’ottenimento del suffragio nel 1919, i diritti delle donne furono progressivamente stabiliti dalle costituzioni del 1923, 1964 e 1976. Ogni piccolo cambiamento in loro favore era fortemente contestato dai conservatori in tutto il Paese, in particolar modo nelle zone rurali dove il progresso era molto più lento rispetto alle città. Tuttavia, i movimenti di stampo femminista hanno continuato il loro cammino sfidando una società patriarcale per quasi tutto il ventesimo secolo ottenendo l’accesso al diritto all’istruzione e al lavoro. Quando le forze dell’Armata Sovietica invasero il Paese nel 1979 si registrò un repentino passo indietro nel campo dei diritti. Tutti i progressi sull’uguaglianza di genere che erano stati precedentemente ottenuti sono regrediti del tutto quando le forze di opposizione, dei mujahidin, hanno combattuto contro l’occupazione e hanno colto l’occasione per reprimere i diritti delle donne, in quanto espressione di una politica estera che l’Armata Russa voleva imporre al Paese occupato. In questi anni il genere femminile è stato soggetto a gravi abusi e violazioni dei diritti umani.

Dopo il ritiro delle forze straniere nel 1989, scoppiò una guerra civile tra varie fazioni mujahidin. A farne le spese sono state le donne, vittime di uccisioni extragiudiziali, torture, violenze sessuali, sparizioni, matrimoni forzati, tratta e rapimenti e accesso limitato all’istruzione. La guerra civile ha contribuito all’accrescere del potere dei Talebani che nel 1996 hanno preso il controllo dell’Afghanistan proclamando un Emirato Islamico che ha avuto vita fino al 2001. Successivamente con l’istituzione della Repubblica Islamica dell’Afghanistan ci furono alcuni progressi nel campo dei diritti delle donne, anche se in modo non uniforme in tutto il Paese. Prima del 2021 sono stati fatti numerosi e importanti passi in avanti: l’uguaglianza di genere è stata sancita dalla Costituzione del 2004 e da altre leggi, tra cui la Legge sull’eliminazione della violenza contro le donne e l’istituzione del Ministero per gli affari femminili. Le donne nel tempo hanno potuto ricoprire seggi parlamentari, incarichi ministeriali e diplomatici e alte cariche, anche come giudici e presidenti di commissioni indipendenti.

Nonostante timidi segnali di miglioramento prima del ritorno dei Talebani, ad oggi l’Afghanistan rimane una nazione molto pericolosa per le donne.

La legge afghana di fatto criminalizza diversi atti contro le donne, tra cui stupro, matrimoni forzati, violenza fisica, discriminazioni, molestie di varia natura, ecc. Ad esempio, è proprio il codice penale afghano a criminalizzare lo stupro sia di uomini che di donne, con una pena detentiva che può andare dai cinque ai sedici anni. Tuttavia, le autorità non sempre hanno fatto rispettare queste leggi e in molte zone del paese, soprattutto in quelle rurali, tali leggi sono ignorate o addirittura sconosciute. Le leggi afghane mancano poi nel proteggersi da certe forme di violenza, come la violenza domestica e gli stupri da parte di un familiare. Data la normalizzazione di tali pratiche a livello culturale, molte donne hanno continuato a subire abusi da parte dei loro mariti, padri, fratelli, suoceri e altri individui. La violenza domestica viene vista come una “faccenda di famiglia”, e le autorità di fronte a tali abusi si sono comportate di conseguenza, con risposte insufficienti e inadeguate, come la preferenza per la mediazione, mostrando simpatia verso i perpetratori, facendosi corrompere o cedendo alla pressione familiare o tribale.

La stessa legge afghana prevede certe forme di limitazione alle libertà delle donne. Ad esempio, per legge le donne non possono divorziare unilateralmente dai loro mariti, ma possono farlo con il consenso del marito al divorzio, sebbene gli uomini possano divorziare unilateralmente dalle loro mogli. Un altro esempio sono i test di verginità, procedure abusive che fanno parte della routine dei procedimenti penali in Afghanistan anche se non hanno validità scientifica. Il codice penale afghano richiede un’ingiunzione del tribunale e il consenso della donna per le prove, ma questi requisiti vengono spesso ignorati.

Le donne afghane continuano ad essere oggetto di discriminazioni e abusi non solo fisici, ma anche psicologici e verbali, giustificati sempre a livello culturale.

La presenza di gruppi armati estremisti sul territorio afghano rappresenta un’altra fonte di pericolo per le donne afghane, che spesso diventano dei veri e propri obiettivi, soprattutto se si tratta di attiviste e/o esponenti politiche. Nelle zone sotto il controllo di tali gruppi, le donne sono anche soggette a veri e proprio limiti nella libertà di movimento, nonché di accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

Tutto è cambiato con l’accordo per portare la pace in Afghanistan tra gli USA e i Talebani (accordo di Doha) del 2020 che ha completamente escluso le donne in quanto non conteneva nessun riferimento in merito alla tutela dei loro diritti.

Da quando i Talebani hanno ripreso il controllo effettivo del Paese nell’agosto 2021, si sono verificate nuovamente gravi e sistematiche violazioni.  

A settembre 2021 viene eliminato il Ministero per gli affari femminili e istituito il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, caratterizzato dal mandato di controllare il comportamento di cittadini e cittadine, incluso il codice d’abbigliamento femminile e la possibilità per le donne di uscire dalla propria abitazione non accompagnate da un parente maschio.

Inoltre, i mesi successivi hanno visto la restaurazione di un vero e proprio regime di segregazione domestica di genere, con l’impedimento per le donne afgane tanto di andare a lavoro quanto di avere accesso all’istruzione secondaria.

Le statistiche relative alla violenza contro le donne rimangono sottostimate, con nessun dato disponibile dopo il ritorno dei Talebani. Violenza fisica, molestie, prostituzione forzata, privazioni di alimenti e matrimoni forzati e in giovane età rimangono le manifestazioni principali di violenza contro le donne, che ha visto un incremento da agosto in poi, quando i meccanismi di supporto legale sono stati de-istituzionalizzati e i rifugi per le donne sono stati chiusi dai Talebani, portando molte persone ad avere paura di denunciare.

Nel 2023 i talebani hanno continuato a imporre e far rispettare regole che impediscono in modo completo alle donne e alle ragazze di esercitare i loro diritti fondamentali, tra cui la libertà di movimento, lavoro e istruzione. Tali divieti minacciano fortemente anche il diritto alla vita, al sostentamento e all’accesso all’assistenza sanitaria, al cibo e all’acqua. Continua il divieto imposto alle donne di lavorare per l’ONU e per le ONG internazionali privandole del loro sostentamento. Tali divieti hanno aggravato la crisi umanitaria rendendo più difficile monitorare e offrire aiuto e bisogni umanitari alle donne e ragazze in difficoltà. Nel 2023 la repressione si è intensificata e la chiusura di tutti i saloni di bellezza ha causato la perdita di 60.000 posti di lavoro. Le proteste che sono scaturite in seguito a questi divieti da parte di donne e ragazze sono state duramente represse dalle forze talebane che hanno fatto ricorso ad arresti arbitrari e detenzione forzata con l’uso di torture.

Sono aumentate le restrizioni all’istruzione delle ragazze. Oltre al divieto di iscrizione alle scuole oltre la scuola primaria, a giugno alle Ong internazionali, inclusi i programmi dell’Unicef, è stato vietato di fornire istruzione a livello di comunità ed è stato chiesto loro di passare i programmi alle organizzazioni locali. Tra giugno e luglio quasi 4.500 donne sono state licenziate dai posti di lavoro nel settore dell’istruzione.

Diverse agenzie delle Nazioni Unite segnalano un aumento dei matrimoni precoci e forzati, nonché della violenza di genere e dei femminicidi, rimasti impuniti. Sono stati diffusamente segnalati casi di donne e ragazze vittime di depressione che, in alcuni episodi, le ha portate al suicidio.

Restrizioni adottate dal governo talebano

I Talebani hanno progressivamente emanato una serie di editti, decreti e direttive che limitano fortemente i diritti delle donne e delle ragazze, compresa la libertà di movimento, di abbigliamento e l’accesso all’istruzione, al lavoro, alla salute e alla giustizia. Tra settembre 2021 e maggio 2023 sono stati emanati più di 50 editti, tra cui:

  • 18 settembre 2021: istruzione limitata per le ragazze oltre la sesta elementare.
  • 23 dicembre 2021: ai conducenti di mezzi di trasporto di sesso maschile è stato vietato di accettare donne senza un “adeguato hijab” o senza mahram (tutore di sesso maschile) per viaggi superiori ai 72 chilometri
  • 27 marzo 2022: divieto alle donne di salire a bordo di voli nazionali e internazionali senza un mahram.
  • 7 maggio 2022: obbligo per le donne di osservare il “corretto hijab”, ovvero il chador che copre il corpo dalla testa ai piedi, e non uscire di casa senza motivo.
  • 21 maggio 2022: le conduttrici delle emittenti tv afghane sono state costrette ad andare in tv coprendosi il volto, lasciando scoperti solo gli occhi.
  • 10 novembre 2022: divieto alle donne di utilizzare le palestre.
  • 11 novembre 2022: divieto alle donne di entrare nei parchi, nei bagni pubblici, circoli sportivi e parchi di divertimento.
  • 20 dicembre 2022: sospeso il diritto delle donne a frequentare l’università.
  • 22 dicembre 2022: bandite per le ragazze tutte le forme di istruzione oltre la sesta elementare.
  • 24 dicembre 2022: sospeso il diritto delle donne a lavorare con organizzazioni non governative nazionali e internazionali.
  • 4 aprile 2023: si vieta alle Ong attive in Afghanistan di impiegare personale femminile.
  • 23 agosto 2024: alle donne è vietato far sentire in pubblico lapropria voce. È vietato cantare, recitare e parlare con toni alti al di fuori delle proprie mura domestiche.

La Direzione Generale dell’Intelligence opera come esecutore delle restrizioni: arrestando, detenendo e torturando individui sospettati di contravvenire agli editti.

Diversi editti sono diretti anche agli uomini: un dipendente pubblico, ad esempio, rischia di essere licenziato se sua moglie o sua figlia non indossano “l’hijab adeguato”.

Il 31 agosto 2021, il viceministro degli Affari esteri ad interim ha annunciato che nessuna donna avrebbe occupato posizioni dirigenziali di vertice. Le donne sono ora totalmente escluse dalla vita politica e pubblica in Afghanistan. Nessuna donna ricopre al momento cariche pubbliche o politiche, e un numero sempre più limitato rimane nella Pubblica Amministrazione, prima dell’agosto 2021 invece ricoprivano ruoli chiave nel governo, nelle commissioni indipendenti e nell’ambito giudiziario.

I talebani stanno punendo coloro che trasgrediscono agli editti attraverso gravi atti di violenza, come la detenzione arbitraria e la tortura.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite chiede ai Talebani la revoca immediata delle restrizioni che violano i diritti delle donne e delle ragazze in Afghanistan, compresi i diritti al lavoro e all’istruzione e invoca la scarcerazione di tutti i detenuti arrestati per aver preso parte alle manifestazioni in difesa dei diritti umani, violati dalle restrizioni imposte. Le donne e le ragazze non si arrendono alle restrizioni imposte dai Talebani e cercano di dare nuova vita al diritto all’istruzione diffondendo il sapere grazie alle allieve di livello avanzato che insegnano ad altre nei propri villaggi cercando di contagiare positivamente le comunità. Vengono organizzati corsi completamente gratuiti di inglese, di informatica, di matematica e scienze ai quali partecipa più del 65% di studentesse. Nei villaggi, dove la pressione delle autorità è maggiore, le lezioni si svolgono prima dell’alba. “Ognuno può insegnare qualcosa a qualcun altro”, questo è il principio che guida migliaia di donne che non vogliono arrendersi e che trovano nella condivisione un modo per restituire il dono della conoscenza.

Il 29 marzo 2024 il mullah Hibatullah Akhundzada ha dichiarato ai funzionari occidentali in un messaggio vocale trasmesso dalla Tv di Stato che i talebani inizieranno a lapidare a morte in pubblico le donne accusate di adulterio. il leader supremo ha annunciato che il gruppo islamico continuerà a far rispettare la sua interpretazione della sharia in Afghanistan, reintroducendo anche la fustigazione pubblica.

 Bambini

I bambini afgani rappresentano un’altra categoria estremamente vulnerabile. I continui conflitti che si svolgono sul territorio del paese incidono particolarmente su molti aspetti della vita dei bambini e dei ragazzi, come l’ accesso ai servizi di base (istruzione, assistenza sanitaria), effetti negativi sulla salute mentale e sul benessere psicosociale, nonché nell’essere vittime dirette dei conflitti armati.

Secondo i dati UNICEF al 2021, 4,2 milioni di bambini “non andavano a scuola”, di cui il 60% sono ragazze, con altri 7,9 milioni che rischiavano di rimanerne esclusi. Di quelli che andavano a scuola, molti erano soggetti ad abusi sessuali perpetrati da insegnanti e funzionari scolastici, nonché spesso soggetti a punizioni corporali.

Da fonti UNICEF del 2023, è emerso il costante e drammatico peggioramento delle condizioni di 1,1 milione di ragazze a cui è stato vietato l’accesso all’istruzione secondaria, implicando gravi rischi di apprendimento e protezione con effetti sulle generazioni future. Oggi, in una famiglia su 3 almeno uno dei figli non va a scuola, con oltre 1 milione di bambini che lavorano.

In tale contesto, 15,3 milioni di bambini hanno bisogno di aiuti e assistenza, tra cui 8,6 milioni di bambini e bambine hanno bisogno di sostegno per l’istruzione e 875 mila bambini sono a rischio per grave malnutrizione.

L’insediamento dei Talebani ha comportato l’impossibilità per le ragazze afgane di continuare la propria educazione a partire dalla scuola secondaria. Nel corso dei mesi vi sono state diverse dichiarazioni che sembravano voler tendere a un’apertura per il diritto all’istruzione di bambine e ragazze, purché conformi all’interpretazione islamica della shari’a, tuttavia ancora oggi l’accesso all’educazione è fortemente limitato se non nullo per le bambine e le ragazze afgane.

Il divieto di accesso all’istruzione per le ragazze rende l’Afghanistan l’unico Paese al mondo in cui alle bambine e alle giovani donne è vietato frequentare la scuola secondaria e gli istituti di istruzione superiore.

Durante la Repubblica l’accesso era, nonostante gli sforzi istituzionali, difficile, soprattutto nelle zone rurali, ma nonostante tutto sono stati compiuti progressi significativi nell’ambito dell’istruzione. Nel 2018, le ragazze rappresentavano il 39% degli studenti della scuola primaria, il 35,7% degli studenti della scuola secondaria inferiore e il 34% degli studenti della scuola secondaria superiore.

Il 29 agosto 2021 il nuovo ministro de facto dell’Istruzione annunciò un primo divieto per le ragazze di co-educazione nelle università per poi decretare in via definitiva, il 18 settembre 2021, che solo i ragazzi avrebbero potuto frequentare la scuola secondaria e che solo gli insegnanti maschi avrebbero potuto insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado.

Le autorità hanno, inoltre, vietato alle donne di registrarsi e lavorare in organizzazioni non governative e straniere e hanno impossibilitato l’accesso fisico ai luoghi di lavoro pubblici senza un maharam che le accompagni.

La legge afgana stabilisce l’età minima legale per il matrimonio a 16 anni per le ragazze (15 anni con il consenso di un genitore o tutore o del tribunale) e 18 anni per i ragazzi. Tuttavia, nel paese spesso i ragazzi e le ragazze sono forzati al matrimonio anche in età precoci rispetto a quanto previsto dalla legge.

Con la situazione di crisi umanitaria creatasi dopo il rientro dei Talebani, molti rapporti evidenziano come le famiglie vendessero i propri bambini per permettersi il cibo, in particolare le bambine per matrimoni precoci.

Ufficialmente il governo, con l’assistenza delle autorità internazionali, esercita uno stretto controllo sui reclutamenti operati dalle forze armate e dalla polizia, rifiutando richieste di ragazzi che non abbiamo compiuto 18 anni.

Tuttavia, si sono verificati casi nei quali alcuni bambini sono stati reclutati e utilizzati a scopi militari da parte dell’Afghan National Security Forces, dell’Afghan National Police e dalle milizie pro-governative.

Sembra, inoltre, che il reclutamento di ragazzi minorenni da parte delle milizie ribelli sia in aumento. Numerosi rapporti rivelano che i Talebani e gli altri gruppi ribelli abbiano reclutato bambini al di sotto dei 18 anni, in alcuni casi per utilizzarli come attentatori suicidi o come scudi umani, in altri casi anche per fargli svolgere altri lavori. Le ONG, i media e le agenzie ONU hanno riferito che spesso i Talebani e i gruppi armati attirano i ragazzi con l’inganno, promettendo loro del denaro, oppure li costringono ad arruolarsi con la forza.

Secondo la valutazione nazionale svolta dall’ dell’UNICEF nel 2019 sulla prevenzione del reclutamento di bambini in Afghanistan, 1 famiglia su 100 ha avuto almeno un bambino reclutato nelle forze armate negli ultimi cinque anni. Su 10 bambini che si sono uniti alle forze armate, 1 è stato ucciso o è scomparso, 3 sono ancora nelle forze armate e 6 sono tornati e hanno bisogno di sostegno per il reinserimento.

Un altro fenomeno da evidenziare è il bacha bazi, una pratica diffusa in alcuni contesti del paese che consiste nello sfruttamento sociale e sessuale di giovani ragazzi da parte di uomini per intrattenimento. È ritenuta un vero e proprio status symbol nonostante la legge criminalizzi rapporti – anche in caso di consenso – con persone più giovani dell’età legale richiesta.

Infine, anche la situazione degli orfanotrofi merita attenzione: diverse Ong riportano che più dell’80% di bambini, bambine, ragazze e ragazzi tra i quattro e i diciotto anni che si trovano in una situazione istituzionalizzata non siano orfani, bensì provenienti da famiglie che non possono permettersi di offrire loro cibo, casa e istruzione.

Oltre ad essere vittime di abusi mentali, fisici e sessuali – e occasionalmente di tratta – negli orfanotrofi i bambini non hanno accesso al riscaldamento in inverno, all’acqua corrente, ai servizi sanitari, ricreativi e all’istruzione.

LGBTQIA+

In Afghanistan è la stessa legge a vietare i comportamenti omosessuali. La legge afgana, infatti, criminalizza la condotta sessuale consensuale tra persone dello stesso sesso, considerata in contrasto con legge islamica della shari’a. La condanna per attività sessuali tra persone dello stesso sesso è punibile con la morte, la fustigazione o la reclusione. Oltretutto, la legge non vieta la discriminazione o le molestie basate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Per questo motivo le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ subiscono forti discriminazioni e violenze, sia da parte della società che dalle autorità.  Spesso gli viene negato accesso ai sevizi base, o corrono un elevato rischio di perdere il lavoro per causa del loro orientamento sessuale. I membri di questa comunità sono soggetti a violenze fisiche, stupri, maltrattamenti, arresti arbitrari e detenzione. In generale, la violenza nelle sue varie forme contro la comunità LGBTQIA+ è assai diffusa e comune in Afghanistan.  

Il rapporto Eligibility Guidelines for Assessing the International Protection Needs of Asylum-Seekers from Afghanistan, pubblicato dall’UNHCR (Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) nel luglio del 2009, sottolinea che “come l’apostasia (l’abbandono formale e volontario della propria religione, NDR), l’omosessualità è punibile con la pena di morte, secondo la maggior parte delle interpretazioni della legge islamica”. Anche se l’International Lesbian and Gay Association (ILGA), nel rapporto World Survey: State sponsored Homophobia (maggio 2011), sottolinea che non sono state eseguite condanne a morte legate ad atti omosessuali dopo la fine del regime dei Talebani, l’omosessualità in Afghanistan rimane un tabù e molti vivono la propria sessualità con paura e timore.

L’UNHCR ritiene che gli omosessuali siano comunque a rischio di subire emarginazione a livello sociale, violenze da parte delle famiglie o di membri delle comunità, ma che siano anche formalmente perseguibili.

Con il ritorno al potere dei Talebani nel paese, la paura di subire repressione e violenza tra le persone LGBTQIA+ è aumentata, spingendo molte di loro a lasciare il paese in seguito a diverse aggressioni fisiche e sessuali, unitamente a discriminazioni, sia da parte dei Talebani che da stranieri, vicini e famigliari. Altre persone hanno riportato di vivere in condizioni fisiche ed economiche precarie poiché costrette a nascondersi.

Rifugiati

Secondo gli ultimi dati rilasciati dall’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel suo report Global Trends 2023, circa 6,4 milioni di rifugiati afgani vivono in più di 70 paesi e costituiscono una delle più grandi popolazioni di rifugiati al mondo, insieme ai siriani, agli ucraini e venezuelani. Sempre secondo le fonti dell’UNHCR, nel Paese, alla fine del 2023, ci sono oltre 4,1 milioni di sfollati interni, cioè persone che sono state costrette ad abbandonare le proprie case per sfuggire a persecuzioni e conflitti verso zone più sicure del Paese, non oltrepassando il confine ma rimanendone all’interno, un dato di cui si prevede una crescita costante. Gli sfollati interni del Paese gravitano attorno alle città principali, in particolare Kabul, Herat e Mazar-e Sharif. Molti hanno trovato alloggio in insediamenti informali, costretti a vivere in condizioni di eccessivo affollamento, mancanza di igiene, scarso accesso all’acqua potabile, a un riparo adeguato e ai servizi sanitari, nonché sotto la costante minaccia di sgombero forzato. Attualmente, le Repubbliche islamiche dell’Iran e del Pakistan continuano ad ospitare rispettivamente 3,8 milioni e 2 milioni di rifugiati afgani registrati.

Nel 2016, l’UE e l’Afghanistan sancirono un accordo in materia di rimpatrio, dove l’Afghanistan si impegnava nel favorire il rimpatrio dei suoi cittadini, circa 80.000, la cui richiesta di asilo in Europa non aveva avuto esito positivo, mentre Bruxelles si sarebbe incaricata di coprire i costi del rimpatrio e dei percorsi di reinserimento. Tuttavia, diverse furono le critiche rivolte a questo accordo, da molti considerato uno stratagemma per l’Afghanistan di ottenere aiuti economici. Tuttavia, dopo un iniziale innalzamento dei numeri dei rimpatriati a seguito di tale accordo, il numero di afghani tornati nel proprio paese è diminuito nuovamente, passando da 370 mila a fine 2016 a 8 mila a fine 2019. Nei primi 6 mesi del 2023 sono avvenuti più di 7 mila rimpatri.

Il ritiro delle ultime forze internazionali dall’Afghanistan ha avuto un impatto negativo sul Paese. L’espansione delle forze talebane e la presa del Paese da parte di queste ultime ha portato ad un esponenziale aumento delle violenze e degli attacchi armati, portando a nuove ondate di spostamenti verso zone più sicure e/o fuori da paese, soprattutto verso il Pakistan e l’Iran.

In aggiunta, il diritto di richiesta di asilo in paesi terzi è stato compromesso dalle restrizioni imposte dai Talebani per le partenze, incluse notevoli difficoltà nell’ottenimento di passaporti e visti. Per questi motivi alcune persone si trovano costrette a compiere viaggi irregolari, smesso affidandosi ai trafficanti e vedendo così aumentare il rischio di subire violazioni dei diritti umani.

A causa della guerra, negli ultimi anni milioni di afgani si sono rifugiati in Pakistan. A partire dall’agosto del 2021, oltre 600mila persone sono scappate dal paese per entrare in Pakistan.

Il 1 ottobre 2023 il governo del Pakistan ha lanciato un ultimatum a 1,7 milioni di profughi senza documenti provenienti dall’Afghanistan. Il governo pakistano ha dichiarato che chi non lasciava il paese entro i 1 novembre rischiava l’arresto o la deportazione. In un mese oltre 165mila afgani sono fuggiti dal Pakistan. Oltre 129mila persone sono fuggite dalla provincia di Khyber Pakhtunkhwa e altre 38.100 hanno attraversato il valico di Chaman, in Belucistan.

Questa campagna di deportazioni da parte del Pakistan è iniziata a seguito di un aumento degli attacchi terroristici nel Paese che il governo pakistano attribuisce ai gruppi armati presenti in Afghanistan. L’ambasciata afgana di Islamabad ha dichiarato che la decisione presa dal governo di Islamabad danneggerà ulteriormente le relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Intanto migliaia di afghani hanno denunciato abusi e detenzioni da parte del governo pakistano per costringere i richiedenti asilo afgani a partire.

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