Il Centro Astalli Palermo nasce nel 2003 grazie a un gruppo di volontari della Comunità di Vita Cristiana che decise di organizzare una scuola di italiano per stranieri presso il CEI – Centro Educativo Ignaziano. Nel 2006 viene inaugurata la sede operativa nello storico quartiere Ballarò, dove oggi vengono offerti diversi servizi: da quelli di prima accoglienza per i migranti arrivati da poco in Italia a quelli volti all’inclusione e all’autonomia socio-lavorativa dei rifugiati.

Il percorso di presa in carico delle persone migranti che vivono in città inizia con un colloquio individuale presso lo sportello di ascolto, con un tutor dedicato che orienta ciascun beneficiario verso i servizi più adatti. Particolarmente importante è l’accompagnamento sanitario, presso l’ambulatorio medico, che ha permesso di garantire a 566 persone l’accesso alle cure di base, promuovendo la loro integrazione nel sistema sanitario nazionale. Nell’ultimo anno, infatti, si è registrato un aumento del numero di migranti con vulnerabilità psichica, la cui presa in carico risulta essere complessa e frammentata. L’impegno quotidiano di volontari e operatori, in collaborazione con Medici Senza Frontiere e INTERSOS, produce effetti positivi, offrendo un sostegno concreto e facilitando l’inserimento delle persone in una comunità più inclusiva e solidale.
Supporto offerto anche dallo sportello legale finalizzato alla tutela dei diritti e alla risoluzione delle questioni burocratiche. Si è assistito a un aumento delle richieste di aiuto da parte di migranti, intrappolati in un limbo legislativo, spesso privi di un permesso di soggiorno, soprattutto giovani e soli, che vivono in condizioni di estrema precarietà. Peraltro, coloro che sono sprovvisti di documento di identità non possono accedere ai dormitori e questo aumenta i casi di vita in strada. La marginalità abitativa rappresenta, infatti, uno dei punti più critici per cui molti migranti, anche con regolare permesso di soggiorno, sono spesso costretti a ripiegare su abitazioni fatiscenti o ad alloggiare temporaneamente in dormitori comunali ormai saturi.
Nel 2024 il Centro Astalli Palermo ha ospitato 53 persone, tra richiedenti asilo e rifugiati, in tre strutture SAI: una dedicata all’accoglienza di uomini singoli prevalentemente neomaggiorenni, perlopiù di nazionalità tunisina, e due appartamenti per nuclei monoparentali. Anche tra gli ospiti si registra un aumento delle vulnerabilità sanitarie, psicologiche e psichiatriche, che sono state affrontate con specifiche attività di supporto. La maggiore criticità rilevata ha riguardato la difficoltà da parte degli ospiti in uscita di trovare soluzioni abitative autonome. Ciò è dovuto non solo al pregiudizio verso le persone straniere, ma a una vera e propria crisi del mercato immobiliare di Palermo, con sempre più strutture destinate al turismo e sempre meno case ad uso abitativo. A ciò si aggiunge l’instabilità economica, fattore che incide negativamente sui percorsi di inserimento alloggiativo, soprattutto nel caso di nuclei familiari con minori a carico. Per questo sono state promosse attività formative in favore dei beneficiari, facendo registrare un aumento delle opportunità lavorative, in particolare nell’ambito della ristorazione e del turismo, attraverso il supporto dello sportello lavoro.
Presso la scuola di italiano si sono svolti corsi di lingua per fornire agli studenti gli strumenti necessari a integrarsi nella società. L’accreditamento con l’Università di Perugia quale sede d’esame CELI (Certificato di lingua italiana), offre la possibilità di ottenere una certificazione internazionale per la conoscenza dell’italiano. Inoltre, attraverso un corso specifico per la patente, 16 persone sono state supportate nella preparazione dell’esame di teoria. Grazie al progetto All-in, sono stati esplorati metodi innovativi nell’insegnamento delle lingue straniere, focalizzandosi sull’inclusione e sulla valorizzazione delle diversità.
Il servizio del doposcuola ha permesso a 45 bambini migranti di essere aiutati nello svolgimento dei compiti, partecipare ad attività ludiche, culturali e di socializzazione, in particolare grazie al progetto Talenti in crescita, realizzato insieme a Centro Astalli Catania e Newbookclub community lab.
Collaborazioni consolidate e nuove partnership hanno permesso di diversificare l’offerta progettuale. Re-Care Salute, in collaborazione con enti pubblici e privati, ha visto la partecipazione a tavoli tematici ed eventi come “La notte dei ricercatori”, con l’Università degli Studi di Palermo. Per promuovere l’attività sportiva come strumento di integrazione è stato realizzato il progetto Kaleidosport con Verga Basket. È proseguito il programma UNICORE, in collaborazione con Ministero degli Affari Esteri, UNHCR, Caritas Italiana, Diaconia Valdese e Gandhi Charity, nell’ambito del quale il Centro Astalli Palermo si occupa dell’inserimento sociale dei rifugiati arrivati con i corridoi universitari.
Nel 2024 è stata ricca l’offerta di attività culturali ed eventi. In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, è stato organizzato un evento ai Cantieri Culturali alla Zisa – Officine Ducrot. La partecipazione all’incontro “Dieci anni di SAI”, presso il Centro Diaconale La Noce – Istituto Valdese, è stata una preziosa occasione di confronto sui metodi, le sfide e le buone pratiche nel campo dell’accoglienza.
Realizzata anche la terza stagione del programma formativo L’isola che non isola, rivolto ai volontari del Centro Astalli Palermo e Catania.
Nell’ambito dei progetti nelle scuole Finestre e Incontri è stato portato avanti un lavoro con le scuole del territorio volto a sensibilizzare le giovani generazioni. 

Dati

 

Contatti

Centro Astalli Palermo
Piazza Santi Quaranta Martiri al Casalotto 10/14 – 90134 Palermo
Tel.  091 9760128
www.centroastallipalermo.it
[email protected]

Presidente: Alfonso Cinquemani
Vice Presidente: Carmelo Cottone
Coordinamento: Dina Arcudi, Emanuele Cardella, Emilio Cozzo

  • operatori: 10
  • volontari: 156
 

Testimonianze

1200 dollari per un posto su un gommone

Ali è un ragazzo di 26 anni, sudanese, giunto in Italia vivo per miracolo. È uno dei tanti arrivati dal mare. Dopo essere stato 60 giorni nel centro di prima accoglienza a Lampedusa e 30 giorni nel centro di permanenza temporanea di Agrigento, è stato espulso dall’Italia senza la possibilità di chiedere asilo.  Una volta giunto in Inghilterra, nel rispetto della Convenzione di Dublino, gli hanno spiegato che doveva presentare richiesta di asilo nel primo paese europeo in cui era stato. Ora, con un permesso per motivi umanitari, che finalmente gli è stato concesso dalle autorità italiane, sogna di fare il fornaio, il mestiere che gli ha insegnato suo padre.

Come è iniziato il tuo viaggio per l’Italia? Scusa se insisto ma promettimi di usare un altro nome per l’intervista. Mia madre non sa nulla di quello che ho dovuto passare per arrivare qui. Le ho solo detto che è andato tutto bene, che il viaggio è stato tranquillo. Lei non voleva che io partissi e così ho preferito rassicurarla: non deve sapere che suo figlio ha conosciuto da vicino la morte. Il mio viaggio per arrivare in Italia è iniziato in un tir: eravamo in 105 stipati uno vicino all’altro, ognuno con il suo posto pagato 100 dollari per attraversare il deserto fino in Libia. Il viaggio è durato una settimana, il cibo era poco e l’acqua meno. Ci facevano sgranchire le gambe una volta al giorno per cinque minuti. 

Una volta arrivato in Libia cosa hai fatto? Sono stato due mesi a Tripoli prima di poter partire per l’Italia. Non sapevo bene come fare a contattare chi organizza i viaggi, ma ci ho messo poco a capire a chi mi dovevo rivolgere per lasciare la Libia. Ho incontrato un gruppetto di sudanesi che mi hanno messo in contatto con un tizio, anch’egli sudanese. Poche parole, niente convenevoli: 1200 dollari è il prezzo di un posto su un  gommone per un viaggio che – mi dicevano – “dura al massimo 12 ore: in questo periodo non c’è da preoccuparsi,  il mare è calmo e non c’è vento”. Il 1 agosto del 2004, un giorno prima della partenza, sono stato avvertito che l’indomani all’una di notte mi sarei dovuto trovare in una spiaggetta nascosta non molto lontana dal porto. Oltre a me quella notte c’erano altre 16 persone ad aspettare. Eravamo tutti giovani uomini sudanesi tranne un ragazzo e una coppia di coniugi ghanesi. Il marito si era offerto di guidare il gommone e per questo non aveva pagato la sua quota. Sapevamo che il viaggio doveva durare un giorno e avevamo con noi un panino a testa, un pezzo di formaggio e una bottiglia d’acqua per tutti. Ci avevano detto di non portare nulla perché sul gommone non c’era spazio per i bagagli. In realtà non c’era spazio nemmeno per diciassette persone, eravamo tutti molto stretti uno vicino all’altro. Comunque pensavo che dodici ore le avrei sopportate abbastanza facilmente. 

Come è andata? Sei riuscito a sopportare queste dodici ore di viaggio? Ci abbiamo messo sei giorni ad arrivare. Cinque di noi non ce l’hanno fatta. Un vero incubo: dopo 25 ore di navigazione entrava acqua nel gommone e avevamo finito cibo e acqua da bere. Abbiamo avuto un barlume di speranza quando è comparsa all’orizzonte un’enorme nave bianca. Ci siamo avvicinati per chiedere soccorso. Dalla nave ci dicevano di allontanarci, che non ci avrebbero fatto salire. Vedevamo la nave allontanarsi insieme all’unica possibilità di salvarci tutti.  Dopo altri due giorni così ormai eravamo esausti, pensavo di morire, che non ce l’avrei fatta e che era stato tutto inutile. Durante la notte tra il quarto e il quinto giorno quando l’acqua ormai ci arrivava al collo, abbiamo deciso di tentare il tutto per tutto, tanto ormai non avevamo più nulla da perdere. E così abbiamo staccato il motore dal gommone per alleggerirne il peso e inoltre abbiamo buttato in acqua le taniche di benzina che avevamo a bordo. Quattro di noi hanno deciso di mantenersi a galla con le taniche vuote, abbondando per sempre l’imbarcazione che era inservibile. Io e gli altri non ce la siamo sentiti di seguirli e così siamo rimasti tutti vicini uno sopra l’altro appoggiati alla parte anteriore del gommone. I quattro che avevano scelto di affidarsi alle taniche vuote, spinti dalla corrente, non sarebbero mai arrivati in Italia. 

Come siete giunti in Italia? Al sesto giorno eravamo tutti consapevoli che non avremmo visto la notte. Un’onda più grande delle altre ci ha buttati tutti sott’acqua per circa venti interminabili secondi prima di riemergere. È stato terribile. Siamo stati travolti dall’onda in tredici ma siamo riemersi solo in dodici: la moglie del ghanese non ce l’aveva fatta. Il marito non aveva il coraggio di guardare. Ormai non c’era più niente da cercare o da raggiungere, anche le nostre vite erano perdute. Dopo qualche minuto abbiamo avvistato una nave ma ormai eravamo sicuri che neanche stavolta ci avrebbero aiutato. A questo punto credo di aver penso i sensi. Mi sono risvegliato su una barca con delle persone che mi davano da bere e mi tenevano la fronte. 

Fa male ricordare? Certo fa male. Ma quello che fa più male è sentirsi chiamare clandestino e sentire le notizie al telegiornale di quelli che muoiono. Nessuno dice che siamo disperati, che siamo disposti a morire pur di lasciare i nostri paesi distrutti dalle guerre. Nessuno immagina cosa significa arrivare vivi in Italia. Nessuno sa quanta gente specula sulla nostra vita.