La Corte di Giustizia dell’Unione europea (Cgue) ha sancito con una sentenza che il salvataggio in mare è un dovere, stabilendo che lo Stato di approdo non può sottoporre a controlli arbitrari le organizzazioni che salvano migranti, trattenendo le navi di soccorso e impendendo lo svolgimento del loro lavoro.
In una nota la Corte afferma che “le navi di organizzazioni umanitarie che conducono un’attività sistematica di ricerca e soccorso di persone in mare possono essere sottoposte a controlli da parte dello Stato di approdo”. Tuttavia, “lo Stato di approdo può adottare provvedimenti di fermo soltanto in caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente, il che spetta allo Stato di approdo dimostrare”.
Nello specifico, il caso su cui è intervenuta la Corte riguarda una richiesta pregiudiziale rivolta dal Tar della Sicilia con riferimento ai provvedimenti disposti dalla Capitaneria di porto di Palermo e di Porto Empedocle nell’estate 2020 contro la Sea Watch 3 e 4, impegnate in operazioni di soccorso e sbarco delle persone salvate in mare, e ispezionate da parte delle capitanerie di tali porti, con la motivazione che non erano certificate per l’attività di ricerca e soccorso in mare e avevano imbarcato un numero di persone ampiamente superiore a quello autorizzato, riscontrando inoltre l’esistenza di carenze tecniche e operative che comportavano un pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente e richiedevano il fermo delle navi. La Sea Watch ha proposto, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, due ricorsi volti all’annullamento di tali provvedimenti.
Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia ha proposto alla Cgue alcune questioni pregiudiziali per chiarire l’estensione dei poteri di controllo e di fermo dello Stato di approdo sulle navi gestite dalle organizzazioni umanitarie.
Nella sua sentenza la Corte sancisce l’obbligo fondamentale di prestare soccorso alle persone in pericolo o in difficoltà in mare e che il numero di persone a bordo, anche ampiamente superiore a quello autorizzato, non può dunque costituire, di per sé solo, una ragione che giustifichi un controllo. Per sottoporre una nave a un’ispezione diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare occorre che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente.
Nel caso in cui l’ispezione riveli l’esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Infine, “nel caso in cui sia accertato, a seguito di un’ispezione effettuata dalle autorità dello Stato di approdo, che una nave battente bandiera di un altro Stato membro presenta carenze comportanti un pericolo per la sicurezza in mare, o addirittura un evidente pericolo che ne giustifichi il fermo, la Corte sottolinea l’importanza del principio di leale cooperazione, secondo il quale gli Stati membri, tra cui quello che riveste la qualità di Stato di approdo e quello che riveste la qualità di Stato di bandiera, sono tenuti a cooperare e a concertarsi nell’esercizio dei loro rispettivi poteri”.
In conclusione, nel caso delle navi delle Ong il loro fermo amministrativo può essere dunque disposto non in modo sistematico, ma soltanto quando le autorità competenti provino in concreto che la loro navigazione pone seri problemi di sicurezza.