- Home
- Attività nelle scuole
- Libri, film e serie tv
- Il traduttore del silenzio
La trama
Daoud, un giovane zaghawa, vive con la sua numerosa famiglia in un villaggio nel nord del Darfur. Unico tra i suoi fratelli ha la possibilità di andare a scuola e al termine degli studi decide di trasferirsi in Libia per cercare lavoro. Dopo una serie di travagliate avventure, nell’estate del 2003 decide di tornare a casa dove nel frattempo è scoppiato una feroce guerra tra la locale maggioranza nera e la minoranza araba, sostenuta dal governo sudanese. Pochi giorni dopo aver ritrovato la famiglia, il suo villaggio viene attaccato dai Janjaweed, le capanne bruciate e gli abitanti uccisi o dispersi. A Daoud non resta che mettersi in viaggio come altre migliaia di persone per cercare riparo in uno dei tanti campi profughi sorti lungo il confine tra Sudan e Ciad. Da quel momento sua unica ragione di vita diventa far conoscere al mondo intero il silenzioso genocidio che si sta consumando in Darfur. Decide di rendersi utile per il suo popolo, quindi, non imbracciando un fucile ma sfruttando la sua conoscenza delle lingue per accompagnare reporter e giornalisti interessati a dare voce alle strazianti testimonianze di centinaia di profughi e sopravvissuti.
Piemme 2008, 218 pp.
Un brano
“L’altitudine in sé è qualcosa di potente. Mi dicono che anche chi viaggia nello spazio, guardando il nostro piccolo pianeta da lontano, dove confini e bandiere non si possono vedere né immaginare, è pervaso da un desiderio di pace. Ed era proprio questo che volevo, solo pace. Ero addolorato e preoccupato per la mia gente, ma non arrabbiato. Non volevo uccidere nessuno. Non odiavo neppure l’uomo che stava organizzando tutti quei crimini, il presidente del Sudan, anche se avrei tanto voluto fargli fare una lunga camminata per i villaggi della mia infanzia e magari fargli cambiare idea sul modo migliore di servire il popolo, che è senza dubbio il suo compito” (p. 38).
L’autore
Daoud Ibarahaem Hari, nato in un villaggio del Darfur, è di origine zaghawa, una popolazione di tradizionali pastori tribali che vivono in villaggi stanziali. Ha vissuto in Libia e in Egitto, dove è stato detenuto nella prigione di Assuan per aver varcato irregolarmente il confine con Israele. Nel 2003 è ritornato nel suo villaggio per ritrovare la sua famiglia. Dopo aver perso tutto a causa della guerra si è rifugiato in Ciad, dove ha lavorato sotto falsa identità come interprete e guida di giornalisti e organizzazioni umanitarie. Come primo incarico ha accompagnato gli ispettori delle Nazioni Unite e del Dipartimento di stato Usa incaricati di accertare l’esistenza di un genocidio. Nel 2006 è stato catturato da un gruppo di ribelli, insieme al giornalista del National Geographic, Paul Salopek, e all’autista ciadiano Ali. Imprigionati e torturati come spie, sono stati liberati dopo 35 giorni grazie a forti pressioni internazionali. Daoud Hari è stato accolto negli Stati Uniti come rifugiato e attualmente vive a Baltimora.
Per riflettere, per discutere
In appendice al testo l’autore ha inserito alcune “informazioni di base sul Darfur”, indispensabili per comprendere la situazione della regione, martoriata da una sanguinosa guerra civile. Il sottosuolo del Darfur è ricco di giacimenti petroliferi e il governo centrale di Khartoum sta attuando un sistematico massacro e allontanamento della popolazione locale secondo un piano di soppressione del dissenso e di illimitato sfruttamento delle risorse. Per ottenere ciò è stato suscitato l’odio tra la minoranza araba e gli africani non arabi, che hanno sempre convissuto pacificamente: “I soldati del governo ci hanno detto che questa gente ci avrebbe attaccato uccidendo le nostre famiglie se non li avessimo attaccati noi per primi. Ci hanno promesso dei soldi […]. Le nostre famiglie avevano bisogno di quei soldi, e noi dovevamo proteggerle” (p.107). Eppure di questa come di tante altri situazioni nel mondo si parla pochissimo, sono le cosiddette guerre dimenticate perché non trovano spazio nei nostri mezzi di comunicazione. Così tragedie simili continuano a passare inosservate spesso con il tacito coinvolgimento delle potenze occidentali, responsabili degli assetti creati durante il regime coloniale e interessate allo sfruttamento dello risorse: “Bisogna considerare anche che il Sudan è alleato con i gruppi islamici radicali e che, oltre a questo, vende alla Cina la maggior parte del proprio petrolio. Quindi si ritiene che interessi occidentali e paesi limitrofi siano coinvolti nel sostegno ai ribelli. È terribile vedere quanto soffre la gente comune quando qualcuno decide di giocare partite a scacchi come queste” (pp.12-13).
Nei conflitti armati il 90% delle vittime è costituito dalla popolazione civile. Dal 2003 la guerra in Darfur ha prodotto circa 400.000 morti e 2,5 milioni di profughi. La maggior parte dei profughi vive nei numerosi campi sorti al confine con il Ciad: “Per decisione del governo ciadiano, i profughi potevano varcare il confine, ma dovevano restare nei campi e non potevano svolgere alcun lavoro – nemmeno gratis come stavo facendo io – per non sottrarre opportunità di impiego ai cittadini del Ciad” (p.80). All’interno dei campi, senza la possibilità di lavorare si dipende totalmente dagli aiuti e dalle razioni alimentari che vengono distribuiti e che spesso risultano essere insufficienti e inadeguate, di conseguenza le condizioni di vita nelle tende sono pessime, al limite della sopravvivenza: “Tela e plastica creano ripari molto caldi in un deserto, ed era questo che il mondo aveva mandato, esattamente la cosa sbagliata, e in quantità del tutto insufficiente” (p.86).
L’autore stesso dopo essere stato imprigionato e torturato per 35 giorni è stato accolto negli Stati Uniti come rifugiato: “Chris, l’avvocato, disse che insieme all’ambasciata Usa e all’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati stava cercando di farmi andar via, forse negli Stati Uniti, dove avrei potuto continuare con il mio lavoro in altro modo e tornare quando fosse tornata la mia gente” (p.194). I rifugiati, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, sono persone costrette a fuggire dal proprio paese a causa di guerre e persecuzioni in cerca di protezione. Chi abbandona la propria abitazione per gli stessi motivi di un rifugiato, ma senza oltrepassare un confine internazionale, si chiama sfollato interno: “Così mia mamma e mia sorella diventarono quelli che il mondo chiama IDP (Internally Displaced Persons, profughi interni) ovvero sfollati, profughi che sono ancora nel loro territorio nazionale” (p.74). L’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, fornisce protezione internazionale e assistenza materiale ai rifugiati in tutto il mondo. Nel 2007 il numero complessivo di persone di competenza dell’UNHCR è stato di 31,7 milioni di persone, in Europa i rifugiati erano circa 1,6 milioni mentre in Italia circa 38.000 (dati UNHCR). Moltissimi rifugiati quindi vivono nei paesi limitrofi a quelli da cui sono dovuti fuggire e nei campi profughi. Solo un piccolo numero riesce ad arrivare da noi perché i viaggi sono troppo costosi e troppo pericolosi.
Per approfondire
Scommessa Sudan. La sfida della pace dopo mezzo secolo di guerra, di Campagna Sudan, Terre di mezzo 2006, ripercorre i primi dodici mesi dall’accordo di pace siglato nel 2005 tra il governo del Sudan e i ribelli dell’Spla, ponendo fine alla più lunga guerra civile africana in corso da cinquant’anni, un conflitto che ha causato oltre due milioni di morti. La strada da percorrere, però, è tutta in salita: giustizia, buon governo e diritti umani sono ancora un miraggio, e il Paese è profondamente diviso. Il libro raccoglie, tra l’altro, contributi e interviste a leader sudanesi, attivisti e personalità, che da tempo lavorano per costruire un Sudan multietnico, multireligioso, multiculturale.
Per approfondire la situazione attuale e comprendere le reali motivazioni del mancato sviluppo del continente africano Hic sunt leones. Africa in nero e in bianco, Giulio Albanese, Edizioni Paoline 2007. Missionario comboniano, padre Albanese ha vissuto in Africa per diversi anni, dove ha svolto una duplice attività, giornalistica e missionaria. All’Africa ha dedicato tutto il suo tempo e presenta un punto di vista sul continente africano molto diverso rispetto a quello che solitamente si trova nelle testate non specializzate. Dall’economia alla politica, dai problemi legati allo sviluppo alle malattie che minacciano le popolazioni, dai bambini soldato alla questione femminile, dall’arte alla cultura a tutto campo. Non mancano le testimonianze, le storie e i volti che inframmezzano le riflessioni, dando al libro un’importante dimensione umana di vita vissuta.
Nei panni dei rifugiati: schede 1 e 3.