L’usanza di coprire o scoprire il capo per uomini e donne ha origini antiche anche nelle religioni.
Documentata da oltre tre millenni in area prima mesopotamica e successivamente indo-iranica, ha assunto nel tempo una pluralità di significati, sia in ambito sacro che profano. Nell’antichità le donne appartenenti all’alto ceto sociale lo indossavano per rappresentare il loro status. Anche nel mondo classico la sua presenza è legata sia alla religione che alla vita quotidiana. Divinità o personaggi mitologici sono quasi sempre raffigurati con un velo che ricopre testa e spalle. Attraverso questo focus approfondiremo insieme come “coprire o scoprire il capo” sia ancora oggi una pratica diffusa in molte culture e religioni.
Nell’Ebraismo,
la Kippah/Kippà (dall’ebraico: כיפה, plurale kippot) è il copricapo circolare usato correntemente dagli uomini ebrei, obbligatorio all’interno della Sinagoga.
I più religiosi lo indossano anche nel quotidiano in segno di rispetto verso Dio, e gli studiosi affermano che a tale scopo un qualsiasi copricapo sarebbe adatto. Tra le comunità degli ebrei ortodossi come quella chassidicha, le donne sposate coprono il capo seguendo alla lettera le indicazioni della Torah e indossano il Tichel (ebraico: טיכעל), chiamato anche mitpachat, nel rispetto del codice della modestia noto come tzniut (Genesi 24:65 definisce il velo come un emblema di modestia femminile), (Per approfondire guarda “Unorthodox” – Focus “Cinema e Religioni”). Il tichel può variare da un velo squadrato molto semplice e fatto di cotone, con un’allacciatura posteriore, fino a tessuti variamente elaborati e con allacciature complesse. La copertura dei capelli è principalmente un simbolo del matrimonio, una dimostrazione di devozione allo sposo che può avvenire anche per mezzo di una parrucca.
La Torah stabilisce che una donna debba coprirsi completamente i capelli in un luogo pubblico. Numerose però sono le interpretazioni dei maestri, spesso anche discordanti tra loro. Alcune opinioni affermano che non si debba mostrare più di un tefach (un palmo, circa tre centimetri in totale – una ciocca) di capelli. Tuttavia la Mishnah, – uno dei testi fondamentali dell’Ebraismo – nel Ketuboth (07:06), implica che la copertura dei capelli non sia un obbligo di origine biblica. Il Talmud offre una posizione di compromesso: la copertura minima dei capelli è un obbligo biblico mentre altre norme di come e quando coprirsi i capelli sono determinate dalla comunità di appartenenza.
La tradizionale pratica delle donne di coprirsi il capo è presente anche nel Cristianesimo.
Il copricapo cristiano, noto anche come velo cristiano riguarda due millenni di Tradizione. Per duemila anni le donne cristiane hanno coperto il loro capo con un velo, prima di entrare in chiesa. Questa usanza trae origine dall’insegnamento di San Paolo, secondo il quale le donne hanno l’obbligo di indossare il velo nel rispetto di Dio e riconoscimento della Sua grazia, nonché per rispetto della presenza dei Santi Angeli nella Divina Liturgia. Nell’uso del velo si riflette l’ordine divino invisibile e lo si rende visibile. San Paolo lo presenta come un obbligo, tale da divenire pratica in tutte le chiese.
L’usanza delle donne cristiane di coprirsi il capo viene insegnata nell’interpretazione tradizionale della 1ª Lettera ai Corinzi 11:2-10: Gli uomini pregavano a capo scoperto, le donne a capo velato. La maggioranza degli studiosi biblici ha sostenuto che i “versi 4-7 si riferiscano letteralmente a un velo o una copertura di stoffa per “pregare e profetizzare” e che il verso 15 si riferisce ai capelli di una donna dati a lei dalla natura. Nella Chiesa primitiva era infatti utilizzato un velo di tessuto, così come universalmente insegnato dai Padri della Chiesa e la copertura del capo per le donne ha continuato a essere pratica ordinaria tra i cristiani in molte parti del mondo come in Romania, Russia, Etiopia, India, Pakistan e Corea del Sud. Tra le Chiese Conservatrici come la Mennonita la copertura del capo è considerata ancora un ordine della Chiesa.
Quando San Paolo inviò questa disposizione a tutti i cristiani d’Europa, Medio-Oriente, Nordafrica, ed Estremo Oriente, le donne greche pagane non indossavano coperture del capo; la nuova pratica cristiana venne definita anticulturale al tempo degli Apostoli. Come afferma Tertulliano indipendentemente da dove vivevano: Quello che gli apostoli insegnavano, i discepoli degli apostoli confermavano. Questa testimonianza scritta, grazie ai reperti archeologici viene resa evidenza storica. I dipinti del II e del III secolo, dalle catacombe, alle prime chiese rappresentano donne cristiane che pregano con un velo di tessuto in testa. Anche le Costituzioni Apostoliche del IV secolo d.C. disponevano che “le donne dovessero avere il capo coperto in chiesa”. Ma ancora oggi lo stile delle coperture del capo adottate dalle donne cristiane varia da regione a regione, sebbene la prima Tradizione Apostolica specifichi che la copertura del capo dovesse essere effettuata usando “tessuti opachi, non veli di sottile lino”.
Nella Chiesa Cattolica, il Codice di Diritto Canonico tradizionale, del 1917 (al canone 1262), rende legge la regola paolina. A partire dal concilio Vaticano II, nonostante l’obbligo fosse ancora in vigore, si tradusse in pratica di minoranza tra le chiese cristiane in Occidente e la maggioranza delle donne cattoliche abbandonarono la tradizione: alcune però, in base agli insegnamenti storici cattolici, luterani, calvinisti, anglicani, metodisti, ecc., indossano una copertura del proprio capo durante le cerimonie di culto pubblico e le preghiere private in casa; altri come gli anabattisti tradizionali, credono che le donne debbano indossare una copertura della testa sempre, in base alle parole di San Paolo. Al contrario, nelle Chiese Orientali, la pratica resiste ancora come norma.
Nell’Islam,
la copertura dei capelli della donna musulmana è eredità della tradizione monoteista, probabilmente dovuta all’influenza dell’Impero Bizantino. L’usanza di riservare il velo alle donne nasce con il tempo, dopo anni dalla predicazione del profeta Mohamed, e dopo le successive interpretazioni del Corano. All’interno del testo sacro, troviamo infatti alcuni riferimenti al velo, attraverso i quali il profeta consiglia alle donne di indossare un velo, su volere di Allah, per essere considerate parte di una comunità e lontane da ogni pericolo (violenze, schiavitù, ecc.). Leggiamo nella Sura 24,31:
E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo (hijab) fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne.
Si fa presto però a parlare di “velo”. Per semplificarne la comprensione, proponiamo di seguito alcuni termini più adatti per indicare le varie tipologie:
Hijab: foulard che copre la testa e le spalle lasciando scoperto il viso; Chador: tradizionale copricapo delle donne iraniane, tenuto chiuso sotto il mento, simile a un mantello che si allunga fino ai piedi; Niqab: di origine arabica, è composto da due pezzi, uno che copre naso e bocca, un altro che copre i capelli e la parte superiore del busto. Una piccola fessura lascia di solito scoperti gli occhi. Burqa: mantello, di origine e tradizione afghana, che si usa sopra gli abiti e copre integralmente il volto della donna. Vi sono versioni che lasciano gli occhi scoperti, altri che contengono una retina, altri ancora senza alcun tipo di feritoia.
Il grande Imam dell’università al-Azhar del Cairo, Mohammed Said Tantawi, nel 2009 ha emanato una fatwa con cui ha dichiarato che il niqab e il burqa non sono eredità della religione islamica, ma puro retaggio di tradizioni culturali e locali.
Anche gli uomini possono indossare un copricapo durante la preghiera e all’interno della Moschea, utilizzato prevalentemente dagli Imam. Un cappellino che può variare in stile, tessuti e colori e nella maggior parte dei casi, eredità di tradizioni culturali. Diversi sono anche i nomi, ad esempio sheshia si riferisce al copricapo utilizzato soprattutto in Tunisia, Libia, Niger ed è solitamente di colore rosso. Molto conosciuto è anche il fez, che prende il nome dalla città di Fez in Marocco, da cui sembra essere originario, anche se la sua maggiore diffusione si è avuta in Oriente, in particolar modo nella Turchia degli Ottomani. Noto è anche il kufi, un berretto corto e arrotondato utilizzato in alcuni Paesi del Nord Africa, Africa orientale, Africa occidentale e Asia meridionale, diffuso in tutta la diaspora africana. Al nord del Togo è anche chiamato fulò o nel sud continente indiano tupi.
Un altro indumento di notevole fama è il burqini o burkini, un tipo di costume da bagno femminile che si compone di una tunica di media lunghezza con una cuffia-hijab integrata e i pantaloni da indossare sotto alla tunica (che possono variare nella lunghezza). Specificamente disegnato per le donne musulmane, copre tutto il corpo, esclusi faccia, mani e piedi. Nel 1993 compaiono i primi costumi da bagno femminili prodotti da un’azienda turca. Nel 2004, la stilista australiana di madre libanese Aheda Zanetti decise di migliorare il design e la vestibilità utilizzando materiale sintetico leggero, elasticizzato, simile ai normali costumi da bagno al fine di permettere di nuotare e di asciugarsi rapidamente. Dal 2007 sarà brevettato e conosciuto come Burqini e adottato in seguito dal governo australiano come una delle divise per il proprio personale femminile musulmano impegnato nel salvataggio sulle spiagge.
Il burkini viene utilizzato anche da donne di altre religioni: ebree ortodosse, induiste, sikh e cristiane mormone, oltre che da persone che non intendono scoprirsi o abbronzarsi.
Per approfondire leggi:
Takoua Ben Mohamed, Sotto il velo, Becco Giallo, 2022
Tasnim Ali, VeLo spiego. Un velo contro i pregiudizi, De Agostini, 2022
Anche nella religione Sikh è fondamentale coprire il capo e avere cura di capelli e peli del corpo nel rispetto di Dio.
Tutti i Guru a partire da Guru Nanak Dev ji (primo guru), hanno sempre coperto il capo, ma solo Guru Gobind Singh ji (il decimo guru) istituì che ogni sikh doveva coprirsi la testa. Dato che i sikh credono che il Creatore sia presente ovunque e in ogni forma, si coprono sempre attraverso il turbante. Tra i Cinque K o Panj kakke (simboli esteriori, visibili) sempre portati da un sikh battezzato che entra a far parte del Khālsā vi sono: il Kesh e il Kangha. Essi rappresentano rispettivamente il divieto di tagliare i capelli (tradizionalmente associati alla forza vitale), la barba (simbolo di virilità, coraggio e saggezza) e i peli del corpo. Inoltre vi è un piccolo pettine di legno che tiene in ordine i capelli sotto il turbante, e che rappresenta la pulizia. Un Sikh deve pettinare i capelli almeno due volte al giorno mattino e sera.
I capelli sono inoltre coperti con un particolare tipo di turbante, il Dastar o Pagh, parte importante nella tradizione Sikh sin dai tempi di Guru Nanak. Ogni guru è stato onorato con uno speciale dastār quando è stato dichiarato il “successivo Guru”. Guru Gobind Singh, l’ultimo Guru Sikh umano, ha scritto:
Kangha dono vaqt kar, paag chune kar bandhai.
Pettina i capelli due volte al giorno e allaccia il turbante con cura, girando dopo girando.
Bhai Rattan Singh Bhangu, uno dei primi storici sikh, scrisse in Sri Gur Panth Parkash:
Doi vele utth bandhyo dastare, pahar aatth rakhyo shastar sambhare. Kesan ki kijo pritpal, nah(i) ustran se katyo vaal
Lega i tuoi dastār due volte al giorno e indossa gli shaster (armi per proteggere il dharma), e tienili con cura, 24 ore al giorno. Prenditi cura dei tuoi capelli. Non tagliare i capelli con la lama.
Nella comunità sikh, la Khalsa, il turbante è simbolo di molte virtù come uguaglianza, spiritualità, santità e umiltà, coraggio, lealtà. Inoltre, per le donne che non portano il turbante è consigliato indossare un velo all’interno del Gurdwara in segno di rispetto.
Nella religione Induista invece, il velo si indossa prevalentemente durante le cerimonie che hanno luogo fuori e dentro il Mandir, prima fra tutte il matrimonio.
Nei primi testi scritti della letteratura indiana antica si afferma che:
Le donne possono essere viste senza alcuna colpa nel corso di una funzione religiosa, feste di matrimonio, durante una calamità e in una foresta (Pratimānātaka, commedia scritta dal drammaturgo Bhāsa III-IV d.C.).
Con il passare dal tempo, sarà molto utilizzato dalle donne sposate. Come vedremo nella Scheda 3 “Simboli e oggetti sacri”, il velo è parte dell’abito più utilizzato dalle donne indiane e anche nell’Induismo, il Sari, in origine composto da 3 pezzi:
- Antriya, la veste per la parte inferiore del corpo;
- Uttariya, il velo da portare sopra la spalla o la testa;
- Stanapatta, un drappo per il busto.
Per indicare il “velo” si trovano spesso diversi termini come: Avagunthana, che indica un velo-mantello; Uttariya, il velo da spalla; Mukha-pata, il velo per il viso; Sirovas, il velo per la testa. L’antica Antriya che assomigliava al maschile dhoti si è ulteriormente evoluto nella gonna Bhairnivasani, oggi conosciuta come ghagri e lehenga. Uttariya era un velo-scialle, che indossato sopra la spalla o la testa, si è trasformato in quello che oggi in India è conosciuto come dupatta e ghoongat e il Stanapatta si è evoluto in choli, una camicia a maniche corte.
Nel panorama vario e “complesso” delle tradizioni religiose, troviamo esempi in cui la devozione a Dio e/o appartenenza a un ordine religioso viene dimostrata non coprendo ma scoprendo il capo o attraverso il taglio dei capelli.
La tonsura (o rasatura) la pratica dei monaci del passato di radersi i capelli lasciando solo una frangia a fare da corona, nasce nell’ambiente greco-romano come segno per indicare gli schiavi e, proprio per questo, viene acquisito successivamente dagli ambienti cristiani: è il simbolo della loro “schiavitù” nei confronti del Signore.
La tonsura era il rito (ora abolito) che, in alcune chiese cristiane, precedeva il conferimento degli ordini sacri e indicava l’ingresso nello stato clericale (tonsura ecclesiastica) e anche il rito con cui in alcuni ordini religiosi il novizio si consacrava a Dio (tonsura monastica). Essa consisteva essenzialmente nel taglio di cinque ciocche di capelli, come simbolica forma di rinuncia al mondo da parte dell’aspirante chierico, e come segno di distinzione tra chierici e laici. La forma che i capelli assumevano veniva infatti detta chierica. La tonsura monastica consisteva in una rasatura, in forma di disco, più o meno estesa. Storicamente vi sono stati diversi stili e forme, come quello classico, noto come romano e petrino, che si può vedere rappresentato in centinaia di dipinti medievali e rinascimentali. Lo scopo era quello di ricordare la corona di spine che coprì il capo di Cristo in croce. Inoltre, lo stile paolino adottato in prevalenza dalla chiesa orientale (ortodossa), che richiedeva una rasatura completa.
Questo tipo di rasatura la ritroviamo anche nelle varie tradizioni monastiche del Buddhismo. La tradizione vuole che i monaci buddisti (non i laici!) si rasino completamente i capelli in segno di rinuncia, di non attaccamento al mondo terreno e agli aspetti materiali. In questo senso i capelli sono espressione del proprio ego, e rasarli simboleggia la rinuncia a tutto questo. Questa tradizione inoltre prende origine da Siddharta Gautama che, in quanto figlio di un nobile guerriero, aveva lunghi capelli. La sua storia/leggenda viene narrata nel Canone Pali, (la più antica collezione di testi canonici buddhisti), e possiamo ritrovare molte testimonianze nell’iconografia. Molte sono le statue, disegni, dipinti in cui Siddharta viene raffigurato mentre taglia la sua lunga chioma.
Il Buddha sarebbe nato a Kapilavastu, una città al confine fra l’India e il Nepal, probabilmente tra il VI e il V secolo a.C. Appartiene alla casta dei guerrieri e suo padre è il capo di una piccola repubblica aristocratica. Il bambino riceve il nome di Siddhārta (“colui il cui scopo è raggiunto”) e sul suo conto viene espressa una profezia: se continuerà sulle orme del padre, diventerà un grande re, ma se rinuncerà al mondo e seguirà un cammino religioso, allora diventerà un Buddha, un risvegliato. Il padre, per tutelarlo, lo fa crescere in dimore sontuose circondato di agi, allontanando dalla sua vita ogni immagine di tristezza. In quattro occasioni però il principe riesce a lasciare il palazzo con il suo carro e ogni uscita è segnata da un incontro: il primo con un vecchio, il secondo con un malato e il terzo con un morto. Da questi incontri Siddhārta impara che niente e nessuno può sottrarsi alla vecchiaia, alla malattia e alla morte. L’ultimo incontro è con un asceta, la cui pace ispira Siddhārta a cercare una via che porti a superare gli aspetti negativi dell’esistenza. A 29 anni lascia la casa del padre e si dedica alla pratica ascetica insieme a cinque compagni. Durante questa difficile fase, superate molteplici difficolta, Siddhārta si immerge nella meditazione conclusiva, fino a divenire il Buddha, il risvegliato. L’illuminazione giunge nella notte di luna piena del mese di Vaiśākha (tra aprile e maggio. Muore a Kunshinagar, sulla strada verso la sua città natale. Sull’abbandono del palazzo così come del taglio dei capelli da parte di Siddharta, vi sono diverse leggende. Ma la più accreditata narra che una notte si tagliò i capelli in segno di abbandono dell’attaccamento e degli aspetti materiali della vita, e si liberò dei gioielli e degli ornamenti regali abbandonando tutto e iniziando la sua vita da asceta. (Per approfondire vai alla scheda: Io sono buddhista…ti racconto di me).
Immagini utilizzate:
1: Donna e bambino in chiesa ortodossa: Archivio Centro Astalli/Valentina Pompei
2: Bambino sikh con turbante nel Langar: Archivio Centro Astalli/Valentina Pompei (anche immagine in evidenza)
3: Donne sikh con velo al tempio: Archivio Centro Astalli/Valentina Pompei
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