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- Scheda 3 – Venezia delle religioni
La città di Venezia è stata per più di un millennio capitale della Repubblica di Venezia e conosciuta come “la Serenissima”.
Al massimo della sua espansione i suoi domini includevano gran parte dell’attuale Italia nord-orientale, nonché gran parte delle coste orientali e delle isole del Mare Adriatico al momento della sua caduta. Tra il XVII e il XVIII secolo, la Repubblica comprendeva la Morea (Peloponneso) e gran parte delle isole greche, oltre a diverse città e porti del Mediterraneo orientale. Per circa quattro secoli anche Creta fu veneziana. Città cosmopolita e multietnica fin dalle origini, Venezia ha avuto la capacità di far convivere nella tolleranza reciproca molti rappresentanti di popoli e culti diversi, considerandoli una fonte di arricchimento del proprio patrimonio economico, politico e culturale. I “foresti” erano accolti a prescindere dalla classe sociale di appartenenza e del loro credo religioso e prendevano parte attiva alla vita della città a vari livelli. I reciproci influssi delle diverse culture, contemporaneamente presenti a Venezia, sono ben percepibili nell’arte e nelle tradizioni culturali della città.
Quattro passi nella storia
S.Pietro di Castello
La chiesa di San Pietro di Castello è di grande importanza per la storia di Venezia: fu sede del vescovo dal 775 e poi del patriarca dal 1451, poi cattedrale e sede patriarcale fino al 1807 – quando il titolo passò a San Marco. Sorge nell’antica isola di Olivolo, ora Castello, in quello che fu il primo insediamento abitativo e il primo centro religioso, politico e commerciale della città.
A rafforzare il fascino di questa antica chiesa, che secondo la tradizione popolare avrebbe ospitato anche il Sacro Graal (il calice contenente il sangue di Cristo), nella navata destra è posta la cosiddetta Cattedra di San Pietro, tradizionalmente considerata il seggio usato dal Santo ad Antiochia: in realtà questo bellissimo oggetto, importato da Antiochia da alcuni mercanti veneziani, risale probabilmente al XIII secolo ed è stato creato riutilizzando un’antica stele funeraria arabo-musulmana con iscrizioni del Corano in caratteri cufici.
La chiesa di S. Pietro era luogo centrale per la celebrazione di un’antica festa veneziana, la Festa delle Marie. Secondo la leggenda, nel 943, a Venezia si usava celebrare tutti i matrimoni in un solo giorno dell’anno. Ma quell’anno, quando le spose navigavano in un corteo di barche sulla laguna verso la cerimonia, i pirati le assalirono e le rapirono con tutti i corredi e le doti. Vennero raggiunti nella laguna di Caorle dai veneziani inferociti: i pirati furono trucidati e le spose riportate alla cerimonia. In ricordo della vittoria fu imposto un tributo a dodici famiglie patrizie: provvedere ogni anno alla dote di dodici fanciulle veneziane povere scelte tra le più virtuose, che sarebbero state indicate come “Le Marie” di quell’anno. La festa si svolgeva nel mese di gennaio e nel giorno detto della purificazione le ragazze andavano a S. Pietro di Castello, dove il vescovo usciva dalla messa per benedirle e scortarle fino a S. Marco per incontrare il Doge. Da lì il doge saliva sul Bucintoro, la nave di Stato della Repubblica, e con le Marie navigava sul Canal Grande fino a S Maria Formosa.
L’antica festa è stata reintrodotta in tempi recenti e si celebra in due distinte occasioni: una durante il Carnevale, con la parata di dodici fanciulle veneziane, tra cui è eletta la più bella; l’altra in giugno, quando durante la festa di S. Pietro di Castello si organizza la regata femminile su delle tipiche imbarcazioni, chiamate “mascarete”, a cui partecipano giovani ragazze alle prime esperienze ai remi.
Le sinagoghe di Venezia
I primi insediamenti di ebrei nel Veneto sono molto antichi e risalgono al IV-V secolo ma la comunità registrò una forte crescita soprattutto in seguito all’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492, a causa della quale centinaia di migliaia di persone cercarono rifugio in Portogallo, Turchia e Italia. A Venezia la comunità crebbe e si organizzò, godendo di un clima di relativa tolleranza, finché il Consiglio dei Pregadi (Senato) dispone il 29 marzo 1516 che tutti gli ebrei dovessero obbligatoriamente risiedere nel Ghetto (successivamente detto Ghetto Nuovo). Nasce così un’istituzione che verrà poi ampiamente applicata anche nel resto d’Europa.
Venezia nel corso del tempo ha ospitato numerose comunità ebraiche di diversa origine e abitudini. Nel ghetto si stabilirono comunità provenienti dalla Spagna da cui vennero espulse nel 1492, dall’Italia meridionale, dall’Europa centrale. Ognuna ha allestito un proprio luogo di culto, per mantenere immutate le proprie abitudini e tradizioni liturgiche. Durante gli anni di massimo sviluppo delle comunità, nel Settecento, si arrivò a contare ben nove sinagoghe. Attualmente a Venezia sono presenti cinque sinagoghe più due “scolette”, tutte collocate nel ghetto. Due svolgono ancora funzione liturgica, le altre sono diventate musei, oppure ospitano eventi particolari.
Il Fondaco dei Turchi
Il commercio internazionale era il cuore della vita economica di Venezia. Per questo in città alcuni edifici, chiamati “fondachi” (dall’arabo funduq “casa-magazzino”) venivano riservati alle merci e all’alloggio dei mercanti stranieri. Il 16 agosto 1575, su richiesta dei turchi, il Senato Veneziano decretò di individuare uno spazio “loro riservato come quello che hanno gli ebrei nel loro ghetto” e come quello assegnato ai tedeschi residenti a Venezia “al fine di agevolare il commercio”. Inoltre, per far fronte agli episodi di intolleranza di cui erano spesso vittime i mercanti turchi, nel 1594 le autorità giudiziarie veneziane emisero un decreto in cui si prevedevano pene come l’esilio, il carcere o la prigione a chiunque commettesse un reato, con parole e azioni, nei loro confronti, perché “era desiderio della Repubblica che costoro potessero vivere e svolgere i loro affari in pace e soddisfacentemente come hanno fatto finora”.
Nel 1621 fu individuato un edificio più grande, ancora oggi noto come Fondaco dei Turchi, un palazzo in stile veneto-bizantino sul Canal Grande, tra i più antichi della città. All’interno venivano depositate le merci ed effettuate le contrattazioni. Inoltre furono costruiti un bazar e, secondo le tradizioni turche, una piccola moschea e dei bagni turchi. Sull’edificio vigilava una speciale magistratura che si occupava di non far entrare donne e giovani cristiani: il palazzo veniva aperto o chiuso, a seconda che Venezia al momento si trovasse in guerra o meno contro la Turchia.
Oggi il Fondaco dei Turchi ospita il Museo della Storia Naturale di Venezia.
San Lazzaro degli Armeni
San Lazzaro degli Armeni è una piccola isola nella laguna veneziana, completamente occupata da un monastero che è oggi uno dei primi centri del mondo di cultura armena.
Nel 1717 la Repubblica di Venezia concesse l’isola, anticamente usata come lebbrosario e abbandonata da tempo, a un nobile monaco armeno di Sebaste (oggi Sivas, in Anatolia), Manug di Pietro, detto Mekhitar (il consolatore), in fuga con un gruppo di compagni da Istanbul a causa della persecuzione turca. Mekhitar e i suoi diciassette monaci restaurarono la chiesa e costruirono un monastero; ingrandirono di quattro volte l’isola fino a raggiungere l’estensione attuale di 3 ettari. Il lavoro culturale di Mekhitar fu instancabile: opere scientifiche, letterarie e religiose venivano tradotte in armeno da diverse lingue. Dopo la sua morte, nel 1786, venne fondata una tipografia poliglotta che potè efficacemente sviluppare il progetto di Mekhitar.
La Chiesa di San Lazzaro degli Armeni ospita una biblioteca di circa 200.000 volumi e un museo con oltre 4.000 manoscritti armeni e molti manufatti arabi, indiani ed egiziani (tra cui una mummia del 1000 a.C. molto ben conservata), raccolti dai monaci o ricevuti in dono.
Nella parte settentrionale dell’isola, protette dal l’inclemenza del clima da un fitto filare di pini, i monaci armeni coltivano da secoli numerose varietà di rose, alcune rarissime. Una tecnica secolare ne imprigiona i profumi nella Vartanush, la marmellata di petali di rose, che tradizionalmente vengono colti al sorgere del sole. Si dice che il poeta inglese Lord Byron, che spesso fu ospite del monastero, la amasse particolarmente.
Letture
Jiro Taniguchi, Venezia, Rizzoli Lizard, 2017
“La partenza non è altro che l’inizio del viaggio di ritorno verso casa.” È una frase che in tanti hanno letto su qualche muro, aggirandosi per i canali di Venezia. Parole che racchiudono il senso di questo libro, in cui Taniguchi ha trasfigurato il suo soggiorno veneziano nella vicenda di un uomo alla ricerca delle proprie radici. L’inattesa scoperta di un legame tra le sue origini giapponesi e la città lagunare crea un corto circuito emotivo ammaliante, un flusso visivo dal quale – proprio come dalle meraviglie di Venezia – è impossibile distogliere lo sguardo.
Jason Goodwin, Il ritratto Bellini, Einaudi, 2009
1840: il Ritratto di Maometto il Conquistatore dipinto da Gentile Bellini, simbolo dell’antica grandezza ottomana, scomparso da Istanbul quattro secoli prima, riappare misteriosamente a Venezia. Il sultano lo pretende. E manda l’eunuco detective Yashim in missione in una Venezia spettrale, oppressa dal giogo della dominazione autriaca, che pretende di vivere ancora della memoria degli antichi splendori. Il Ritratto di Maometto il Conquistatore di Gentile Bellini (o “attribuito a” come dicono prudentemente gli esperti), al centro di questo romanzo, non è invenzione. È un dipinto famoso oggi custodito alla National Gallery di Londra. Le peripezie storiche del dipinto sono ricostruite da Goodwin in una divertente Appendice al romanzo.
Riccardo Calimani, Il mercante di Venezia, Mondadori, 2008
Dall’arrivo a Venezia di un gruppo di rifugiati ebrei guidati dal saggio Moses Conegliano, nel 1508, alla decisione di istituire il Ghetto, questo romanzo, scritto da uno dei massimi storici dell’ebraismo italiano e europeo permette di rivivere il clima tormentato di una città in cui iniziano a risuonare gli echi delle battaglie di religione e degli scontri tra luterani e cattolici. Il fanatismo dell’inquisizione avanza e finisce per condizionare i delicati equilibri politici. Il dramma della Storia si intreccia indissolubilmente alla vita di Moses Conegliano e della sua famiglia.
Sapori
Bisséte de ebrei
Durante gli otto giorni di Pesach, gli ebrei non possono mangiare cose lievitate. Quindi, per più di una settimana sono banditi dalle tavole degli ebrei italiani cibi come pane e pasta, tanto cari alla cucina nazionale. Per fortuna si può ricorrere a golosi biscotti non lievitati. Questi, dalla tradizionale forma a S, sono chiamati Bisséte (cioè biscette, serpentelli) e, nati nel Ghetto per la Pasqua ebraica, sono ormai patrimonio di tutta la città e vengono consumati 12 mesi l’anno. Andrebbero serviti con lo zabaione.
Ingredienti (per ottenere circa 25 pezzi):
400g di farina,
200g di zucchero,
2 uova,
2 cucchiai d’olio,
un pizzico di buccia di limone grattugiata (oppure di cannella).
Lavorazione
Impastare gli ingredienti fino a ottenere un impasto liscio e malleabile. Lasciarlo riposare in frigorifero per 30 minuti. Trascorso questo tempo, trasferire la pasta sulla spianatoia, staccare dei pezzetti della dimensione di una noce, trasformarli in bastoncini lunghi circa 10 cm, grossi come un dito, e modellarli a forma di S.
Porre le “biscette” sulla placca del forno unta e infarinata (o rivestita di carta da forno) e cuocerle per 15 minuti a 180°.
Guarda il video e scopri le altre ricette della cucina ebraica!
Foto in antemprima: pexels-anastasiya-lobanovskaya (ad uso gratuito)
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