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Noi, induisti in Italia
Noi induisti presenti in Italia siamo oltre 150mila. Per la maggior parte siamo immigrati, ma gli italiani sono almeno 30 mila. In Italia ci sono circa 45 centri induisti di rilievo nazionale, i cui movimenti più numerosi sono quelli che fanno capo a Sathya Sai Baba e alla meno nota maestra Amma (circa 2mila).
L’Unione Induista Italiana è nata nel 1996, nel 2000 ha ottenuto il riconoscimento come confessione religiosa da parte del presidente della Repubblica e nel 2007 ha firmato l’intesa con la Repubblica Italiana, ai sensi dell’art. 8 della Costituzione, ratificata nel 2012. Oggi fanno riferimento all’Unione circa 25 centri e il Gitanda Ashram (in provincia di Savona) ne è in un certo senso il quartier generale.
Anche nel Lazio, specialmente nelle aree periferiche delle città, si trovano piccoli centri induisti: alcuni sono frequentati soprattutto da immigrati indiani e bengalesi (come l’Om Hindu Mandir del quartiere Tor Pignattara di Roma), altri (come il tempio Kalimandir a Roma) sono stati fondati da fedeli italiani che hanno abbracciato la religione induista.
I nostri inizi
Il termine hinduism è stato coniato dagli inglesi nel 1820 per definire un fenomeno religioso variegato e complesso, che si è sviluppato nell’arco di quattro millenni come un mosaico di dottrine e pertanto non conosce un fondatore. Un maestro contemporaneo (lo Jagadguru Sri Chandrasekharendra Sarasvati) ha scritto: «Se chiedete ad un giovane indiano quale religione professi egli, se ha ricevuto anche una minima educazione di tipo inglese, risponderà immediatamente che appartiene alla religione indù. D’altra parte, se chiediamo ai nostri contadini come si chiama la nostra religione, essi non saprebbero darle un nome unico. Per i nostri avi, anche di pochi secoli fa, il nome induismo sarebbe stato un termine strano e senza significato, e ciò perché la nostra è una religione senza nome. La vera grandezza della nostra fede consiste nel fatto di non avere un nome».
E la storia continua così
L’induismo conobbe un periodo di particolare fioritura in India durante l‘Impero Gupta, dal 200 al 500 d.C. Fu un periodo di pace, di straordinaria ricchezza artistica e di importanti scoperte scientifiche.
L’induismo è stato sempre caratterizzato da una notevole capacità di espandersi in aree di cultura diversa, anche fuori dai confini dell’India. Già in età antica si diffuse verso il Sud-est asiatico: l’influenza della cultura indù è stata profonda soprattutto in Indocina e in Indonesia e, sebbene sia stato in seguito soppiantato dal buddhismo e dall’islam, ha lasciato tracce fino ad oggi. A partire dal 1800 l’induismo ha conosciuto una significativa diffusione in Europa e in America, attraverso l’opera di maestri di diversissima impostazione. Un movimento di forte impatto è quello degli Hare Krishna, sebbene proponga una disciplina religiosa molto rigorosa e un impegno durissimo e totalizzante.
Le nostre scritture
La nostra religione si basa sul Veda (“sapere”), una raccolta di testi tramandati oralmente fino a tempi recenti da maestro a discepolo, da padre in figlio nelle famiglie dei brahmani. La composizione del Veda non può essere ricondotta a un unico periodo: la parte più antica risale al 1500 a.C., mentre la rimanente è datata intorno al 600 a.C. È composta da quattro raccolte (samhita):
1. La “scienza degli inni” (Rgveda), la raccolta più antica, comprende 1028 inni distribuiti in dieci mandala (cerchi o sfere);
2. La “scienza dei canti sacri” (Samaveda): in essa, le singole strofe del Rgveda vengono ordinate per servire al canto liturgico. Tali canti erano intonati dal sacerdote o dagli assistenti durante i sacrifici;
3. La “scienza delle formule sacrificali” (Yajurveda), una sorta di manuale con le istruzioni necessarie per il sacrificio, che raccoglie preghiere, invocazioni, lodi, formule magiche, sillabe sacre;
4. La “scienza delle formule magiche” (Atharvaveda), che contiene incantesimi, benedizioni, maledizioni, inni per varie cerimonie e alcune speculazioni teologiche e cosmogoniche.
Ciascuno di questi gruppi di testi è ordinato in quattro livelli: raccolte di base, testi brahmanici, “libri silvestri” (così chiamati perché, a causa della loro grande potenza sacra, si consigliava di recitarli fuori dall’abitato, nei boschi) e Upanisad (“sessioni”), di contenuto più metafisico e filosofico. Questi livelli sono considerati cronologicamente successivi: con le Upanisad si conclude la rivelazione vedica, cioè quell’insieme di testi che, non attribuibili a opera umana, sono stati “visti” dai veggenti (rishi) e poi trasmessi da maestro a discepolo per mezzo dell’ascolto (shruti, a volte tradotto con “rivelazione”). Oltre ai testi della shruti, esistono altre opere importanti per la nostra cultura: ad esempio il Mahabharata, un’epopea di oltre 100.000 strofe, all’interno del quale è contenuto il Bhagavad Gita, o “Canto del Beato”; varie raccolte di testi giuridici e di norme, o anche testi specialistici che si collegano al Veda approfondendone alcuni aspetti (Vedānga). Tutte queste opere fanno parte della “tradizione rammentata” (smriti).
Approfondisci: Le sacre scritture
In cosa crediamo
L’induismo non è omogeneo, ma ha una sua indiscutibile unità: ogni “uomo saggio” può predicare liberamente il suo pensiero, purché in sintonia con il Sanatana Dharma, la “legge eterna del mondo”. Esistono dunque molteplici scuole filosofico-religiose, autonome l’una dall’altra. Tutti i grandi maestri (guru) sono considerati capiscuola con la stessa dignità religiosa, per cui nessuno può vantare alcun primato o egemonia sugli altri. Per questo è piuttosto difficile definire in modo univoco i contenuti di una fede che convive serenamente con una pluralità di interpretazioni, che a volte appaiono persino contraddittorie.
Noi induisti veneriamo un essere supremo che fa esistere ogni cosa da cui ogni cosa nasce e al quale ogni cosa ritorna, un ciclo eterno. Questa entità suprema, chiamata Brahman o anche Isvara, “signore”, può assumere tre forme: può manifestarsi come Brahma, il dio creatore; come Visnu, il dio che conserva e fa durare tutto ciò che è creato; come Siva, il dio che distrugge e trasforma. Brahma, Visnu e Siva costituiscono la Trimurti: sono le tre facce di un unico essere supremo. Sebbene il Dio unico sia ovunque, noi uomini possiamo conoscerlo soltanto attraverso le sue manifestazioni: è per questo che lo si venera sotto la forma di numerosissime divinità (33 alle origini, oggi diversi milioni), che sono altrettanti aspetti della stessa Realtà suprema. Tra questi ricordiamo: Durga o Kali, la sposa di Siva, che è quasi la personificazione della forza di Siva che distrugge (ma, distruggendo, libera le anime dalle loro prigioni materiali e permette che esse si ricongiungano al tutto originario, in cui consiste la beatitudine); Krishna, incarnazione di Visnù, giovane pastore e poi guerriero invincibile, dio dell’amore e della lotta; Indra, dio dell’energia, della tempesta che con la folgore uccide i demoni della siccità; Vayu, dio del vento; Agnì, dio del fuoco; Vàruna, dio dell’acqua, il protettore dei sovrani, il signore delle grandi leggi della natura.
Ogni divinità può manifestarsi in più forme. Secondo la concezione dell’avatara, un termine che letteralmente significa “discesa”, la divinità sceglie di calarsi in un corpo umano o animale, di incarnarsi nel tempo per restaurare l’equilibrio cosmico e rivelare la sua natura in modo accessibile all’uomo. Gli avatara possono essere animali, personaggi del mito, oppure persone (ad esempio il Buddha è considerato un avatara del dio Visnù).
Per approfondire leggi il libro Storie di Avatar e altri dei, una narrazione di affascinanti miti indiani, corredata da immagini che evocano il coloratissimo mondo indù.
Noi induisti crediamo che l’anima dell’uomo, dopo la morte, sia destinata a seguire il ciclo continuo del divenire (samsara) e a reincarnarsi in un altro corpo. Questo meccanismo non è casuale, ma regolato dal karma, la legge di retribuzione degli atti compiuti: se l’uomo ha compiuto azioni buone, la sua anima dovrà trasmigrare poche altre volte prima di liberarsi definitivamente, cioè prima di ricongiungersi all’anima universale. Se invece l’uomo ha compiuto azioni cattive, dovrà incarnarsi molte volte ancora, la sua anima dovrà penare e purificarsi prima di arrivare alla liberazione.
Breve documentario sull’induismo
Come viviamo
Il dharma costituisce il quadro di riferimento a cui deve riferirsi tutta l’esistenza dell’uomo. Esiste un dharma universale, cioè quel sistema di valori che tutti noi induisti siamo tenuti a condividere (l’autocontrollo, la purezza, la fedeltà alla parola data, la nonviolenza, intesa come rispetto per la vita in ogni sua forma, non soltanto per quella umana). Vi sono poi i dharma particolari, legati alla condizione specifica dell’individuo, all’epoca in cui è nato, alla condizione sociale a cui appartiene.
La società indù è organizzata in varna (generalmente tradotto con “caste”, una parola di origine portoghese), cioè gruppi sociali con una funzione specifica: sacerdoti, guerrieri, contadini e servi. Il concetto di varna implica qualcosa di più di una semplice divisione in classi: esso è inseparabile dal concetto di jati “nascita” e per noi induisti la nascita non è frutto del caso, ma è regolata dal karma. Le ineguaglianze tra gli uomini non dipendono dunque dalla divinità, ma dalle azioni che abbiamo compiuto nella nostra precedente esistenza. I paria, cioè gli intoccabili, occupano il gradino più basso della scala sociale: sono considerati “impuri” e svolgono le professioni che sono considerate tali, come quelle che hanno a che fare con la nascita (dottori, ostetriche), con la morte (macellaio, giustiziere, crematore), o che vengono a contatto con la sporcizia (netturbino, lavandaia). I paria spesso vivono al di fuori del villaggio e non possono utilizzare strade pubbliche o bere acqua da fontane pubbliche o fare acquisti in un negozio frequentato da membri di caste alte, non possono leggere o studiare i Veda e non possono accedere a numerosi templi. Gandhi fece abolire l’intoccabilità con un articolo della Costituzione: tuttavia il sistema di valori tradizionale è ancora profondamente radicato, specialmente nelle campagne dell’India.
La nostra tradizione presenta una straordinaria varietà di vie di perfezionamento spirituale, molte delle quali mettono al centro i valori più semplici e immediati della vita quotidiana. In particolare, si possono individuare quattro percorsi che ci permettono di raggiungere la liberazione spirituale. C’è la via dell’azione (karmamarga), con l’osservanza dei doveri e la realizzazione del proprio karma; la via della conoscenza (jnanamarga), riservata alle menti elette che tendono a realizzarsi nella perfetta comprensione dell’Assoluto; la via della devozione (bhaktimarga), l’avvicinamento a Dio attraverso l’amore e la devozione mistica. Vi è infine la via degli esercizi fisici e spirituali, cioè la via dello yoga (letteralmente “dominio, padronanza di sé”). Lo yoga, molto diffuso anche in Occidente, anche se spesso ridotto a pratica di palestra, è in realtà un complesso insieme di tecniche di controllo del corpo e del pensiero, sempre accompagnate da una profonda disciplina morale, che ne costituisce il presupposto imprescindibile.
Vedi il film Il Vegetariano, in cui il giovane Krishna dovrà compiere una difficile scelta…
Guarda il video dell' Om Hindu Mandir di Tor Pignattara nell'ambito di "Luoghi in dialogo. Percorsi interreligiosi a Roma".
Feste, luoghi e simboli
Per noi induisti andare al tempio non è obbligatorio: quando ci andiamo, è per vedere la rappresentazione del divino, fare un’offerta secondo i riti, ottenere una benedizione, meditare ripetendo una formula sacra (mantra). Per lo più ci rechiamo al tempio al tramonto, all’ora del culto della sera (puja). Il sacerdote, agitando una campana nella mano sinistra, offre alla divinità i cinque elementi: l’acqua, la terra sotto forma di un fiore, il fuoco nella forma di una lampada a olio, l’aria simboleggiata da un ventaglio e il quinto elemento della nostra tradizione, “ciò che avvolge tutto”, nella forma di un pezzo di tessuto.
Tour nei templi indù d’Italia
Vi sono moltissime festività e ogni famiglia ha le sue celebrazioni in relazione alle divinità adorate. Molte feste sono associate alle stagioni, ai periodi della semina e del raccolto e hanno un valore propiziatorio.
Pongal è una festa tradizionale la cui importanza varia a seconda degli Stati, ma che è particolarmente sentita in Tamil Nadu, nel sud dell’India, terra di raccolti abbondanti. La festa dura quattro giorni e viene celebrata nel periodo del raccolto, nel mese di gennaio, in segno di ringraziamento al sole per l’abbondanza delle messi. Durante la festa viene cucinato un riso dolce in pentole d’argilla su un grande fuoco. È l’unica festività solare, che quindi cade ogni anno nello stesso giorno: è celebrata nel nord India come festa del sole (è il momento dell’anno in cui il sole inizia il suo percorso verso nord segnando la fine dell’inverno).
Maha Shivaratri, la notte dedicata all’adorazione del dio Shiva. In questa notte si fa digiuno, si canta, si raccontano le leggende del dio. Cade tra il tredicesimo e il quattordicesimo giorno della luna nera di phalguna (febbraio-marzo), giorno in cui secondo la tradizione Shiva danzò la danza cosmica (tandava).
Janmastami è la festività della nascita di Krishna, e migliaia di pellegrini per festeggiare la sua venuta, in quanto incarnazione di Vishnu sulla terra, si recano nei luoghi più sacri a Krishna. Nelle case si cucinano dolci, e sulla soglia si disegna con farina di riso e acqua un piccolo piede che rappresenta quello di Krishna bambino.
Dipavali, festa di Divali, festa delle luci, si celebra negli ultimi due giorni della luna nera del mese di kartik (ottobre – novembre) e dura tre giorni. Rappresenta la divina unione di Laksmi con il dio Visnu. In questo periodo ogni luce, ogni lumino, ogni lampada viene accesa in onore della venuta di Laksmi sulla terra, come per rischiararle il cammino e rendere ogni casa, ogni villaggio, ogni capanna sparsa nella foresta, accoglienti e pronti per la visita della Devi, la dea madre, portatrice di abbondanza e prosperità.
Approfondisci: Festività induiste Guarda il video sulla festa dei colori Holi
La nostra religione è ricchissima di immagini e simboli. Il linga è una pietra conica o ovoidale, che spesso ha la forma di un simbolo fallico. Di solito viene posta su una piattaforma che rappresenta il corrispondente femminile (yoni) e rappresenta la forma aniconica di un Dio che non può essere raffigurato adeguatamente da alcuna immagine. Evoca l’unione dei due principi da cui scaturisce la vita, la creazione primordiale.
È il simbolo più diffuso, scolpito, dipinto o graffito su templi, abitazioni, attrezzi e indumenti. Il fiore di loto, che nasce dalle acque fangose degli stagni e si apre verso la luce, può rappresentare la creazione, ma anche essere simbolo di ricerca spirituale, oppure la rappresentazione dello spazio più intimo e recondito del cuore dell’uomo, in cui dimora la spirito supremo (atman).
Una preghiera
La Gayatri
Signore di tutte le galassie,
tu che sostieni l’universo
da cui tutto nasce,
e attraverso cui tutto ritorna,
svelami il volto del vero sole spirituale
ora nascosto da un disco di luce dorata
affinché io possa conoscere la verità
e svolgere correttamente il mio compito
mentre faticosamente cammino,
giorno dopo giorno,
verso i tuoi sacri piedi.
La Gayatri è un antichissimo mantra, una formula il cui potere è racchiuso nella vibrazione del suono nella lingua originale e che pertanto non dovrebbe essere tradotta. Il testo, così come è stato tramandato dai testi indiani, suona così: OM… OM… OM…BHUR BHUVAH SVAH TAT SAVITUR VARENYAM BHARGO DEVASYA DHIMAHI DHYO YO NAH PRACHODAYAT OM… OM… OM… (ascolta)
Hanno detto…
Mohandas Karamchand Gandhi, comunemente noto con l’appellativo onorifico di Mahatma, politico indiano e guida spirituale per il suo Paese, riteneva che separare religione e politica fosse una “follia”: “Per riuscire a vedere faccia a faccia lo Spirito della verità, universale e onnipresente, bisogna riuscire ad amare la più modesta creatura quanto noi stessi. E un uomo che nutre questa aspirazione non può esimersi dal partecipare a nessun aspetto della vita, ecco perché la mia adorazione per la Verità mi ha portato ad interessarmi anche di politica; posso affermare senza la minima esitazione, sebbene con molta umiltà, che coloro che sostengono che la religione non c’entra con la politica, ignorano cosa sia la politica.” Ciò non implica assolutamente il dominio di una fede religiosa sulle altre: secondo la sua visione, le diverse confessioni religiose dovrebbero convivere in una società non sotto il cappello del mero multiculturalismo, bensì costituendo una “solidarietà delle differenze”, in uno spirito di collaborazione verso obiettivi comuni.
Leggi il libro: Chiara Lossani, Gandhi, Edizioni San Paolo, 2022
Approfondiamo insieme… La danza di Shiva
Nell’Induismo la danza ha un grande rilievo; viene infatti considerata una forma di preghiera e comunicazione con il divino. Il terzo Upaveda, uno dei testi sacri induisti, è il Gandharvaveda, la “scienza della musica e della danza”. I concetti di “emozione” e “sentimento” nell’esperienza estetica ricorrono in un termine che denomina una delle sei danze classiche dell’India, il Bharata Natyam. Natyam significa rappresentazione teatrale, e Bharata è il nome del saggio che codificò il trattato per eccellenza sulla danza e la musica: il Natyashastra. Nel cercare l’origine di questa danza, infatti, si finisce per risalire a storie intessute di leggenda e mitologia. Un esempio è il mito di Shiva – il Signore della Danza ovvero Nataraja, che, danzando sul mondo, lo distrugge e lo ricrea dalle sue ceneri. Egli viene rappresentato con una folta chioma, con quattro braccia (una per ogni punto cardinale), mentre compie un passo di danza, con la gamba destra piegata e la sinistra piegata in avanti e mantenuta alzata all’altezza del bacino. Due delle braccia sono aperte, leggermente piegate, una delle mani sorregge un tamburello, con cui ritma la sua danza, e l’altra una fiamma, simbolo di distruzione. Shiva danza all’interno di un cerchio di fuoco che rappresenta il rogo del mondo. Schiaccia sotto il suo piede destro la figura mitologica di un nano, che rappresenta l’oscuramento cui sono preda gli esseri umani, e che solo la divinità è in grado di dissolvere.
Per approfondire:
Vasudha Narayanan, Capire l’Induismo, Feltrinelli, 2017
Maria Angelillo, Le danze indiane, Xenia, 2009
Visita la pagina Focus Religioni in musica
Per concludere, guarda questo breve e simpatico video What is Hinduism? per scoprire di più sulle origini dell’induismo, i Veda, le divinità, e molto altro.
Per capirci…
ashram: luogo di ritiro e meditazione dove, sotto la direzione di un maestro o guru, i discepoli si riuniscono per vivere una disciplina spirituale.
bhakti: “devozione, amore verso Dio”. La bhakti è un attaccamento sentimentale nei confronti del Signore, a cui sono dedicate tutte le capacità emotive. Attraverso il sentimento religioso si instaura un legame tra il devoto e Dio, che lo fa approdare alla percezione dell’Essere supremo.
karma: il termine ha molti significati diversi. Si può tradurre come “azione, attività”, ma anche “sacrificio, azione rituale”, o ancora “principio di causalità”. In particolare, viene usata per indicare quella legge di causa-effetto che fa raccogliere in una vita successiva i frutti delle azioni e dei pensieri di una vita precedente. Questa legge meccanica può però essere trascesa tramite pratiche spirituali, fino al raggiungimento della Liberazione.
mantra: “strumento della mente”. Si tratta di formule, la cui efficacia non è tanto ricollegabile al significato delle parole, ma potere dei suoni che le compongono. Secondo la tradizione indiana, “tutti i Mantra sono composti da sillabe, e tutte queste sillabe sono l’anima stessa del Signore”.
om: la Sillaba Sacra, presente in quasi tutti i mantra, è simbolo dell’Assoluto, dell’Infinito e di tutte le concezioni che l’uomo può farsene. Il simbolo sanscrito che la rappresenta è particolarmente sacro in tutta l’India.
Foto in anteprima: pexels-rohan-dewangan (Ad uso gratuito)