L’esilio in scena
LA NOTTE POCO PRIMA DELLE FORESTE
La notte poco prima della foresta è un atto unico del drammaturgo e regista francese Bernard-Marie Koltès del 1977. Il monologo affronta la drammaticità della condizione del migrante che è costretto a vagare in cerca di un posto da poter chiamare “casa”. Il testo è un dialogo interiore del protagonista che attraverso le parole dense di emozione sfoga la sua frustrazione e la rabbia nei confronti di un sistema che non lo riconosce. Il monologo fu presentato al festival di Avignone off nel 1977. Del 1999 è la messa in scena integrale per la prima volta in Italia ad opera di Roberto Pacini presso il Cantiere Teatrale di Roma. Nel 2001, nell’ambito del festival Benevento Città Spettacolo, la Compagnia teatrale “Gli Ipocriti” il monologo è affidato all’interpretazione di Giulio Scarpati. Nel febbraio 2018 Pierfrancesco Favino ne ha interpretato un brano nella serata finale del Festival di Sanremo e poi, nel corso del 2018-2019, lo porta in scena per intero in tournée.
TESTO
Bisognerebbe stare dall’altra parte senza nessuno intorno, amico mio
quando mi viene di dirti quello che ti devo dire, stare bene tipo sdraiati sull’erba, una cosa così
che uno non si deve più muovere con l’ombra degli alberi.
Allora ti direi: ‘qua ci sto bene, qua è casa mia, mi sdraio e ti saluto.
Ma qua, amico mio, è impossibile, mai visto un posto dove ti lasciano in pace e ti salutano.
Ti dobbiamo mandare via, ti dicono, vai là, tu vai là
vai laggiù, leva il culo da là e tu ti fai la valigia, il lavoro sta da un’altra parte,
sempre da un’altra parte, che te lo devi andare a cercare.
Non c’è il tempo per sdraiarsi e per lasciarsi andare, non c’è
il tempo per spiegarsi e dirsi ‘ti saluto’.
A calci in culo ti manderebbero via, il lavoro sta là, sempre più lontano, fino in Nicaragua.
Se vuoi lavorare, ti devi spostare, mai che puoi dire ‘questa è casa mia e ti saluto
tanto che io quando lascio un posto ho sempre l’impressione che quello sarà casa mia,
sempre di più di quello in cui vado a stare.
Quando ti prendono a calci in culo di nuovo, tu te ne vai di nuovo
e là dove te ne vai sei sempre più straniero, sempre meno a casa tua.
E quando ti prendono a calci in culo, tu te ne vai di nuovo.
Quando ti giri a guardarti indietro, amico, è sempre il deserto.
Fermiamoci una buona volta e diciamo ‘Andate a fanculo’
io non mi sposto più, voi mi dovete stare a sentire
se ci sdraiamo una buona volta sull’erba e ci prendiamo tutto il tempo
che tu racconti la tua storia, come quelli venuti dal Nicaragua,
che ci diciamo che siamo tutti, più o meno stranieri
ma che adesso basta, stiamo a sentire, tranquilli, tutto quello che ci dobbiamo dire.
Allora sì che capisci che a loro non gliene frega un cazzo di noi.
Io mi sono fermato, ho ascoltato, mi sono detto: ‘Io non lavoro più’
finché non ve ne frega un cazzo di me.
A che serve che quello del Nicaragua viene fino qua e che io vado a finire laggiù
se da tutte le parti la stessa storia.
Quando ho lavorato ancora, ho parlato a tutti quelli presi a calci in culo che sbarcano qua per trovare lavoro e loro mi sono stati a sentire.
Io sono stato a sentire quelli del Nicaragua che mi hanno spiegato com’è da loro.
Laggiù c’è un vecchio generale, che sta tutto il giorno e tutta la notte al bordo di una foresta, gli portano da mangiare perché non si deve spostare
che spara su tutto quello che si muove,
gli portano le munizioni quando non ce ne ha più.
Mi parlavano di un generale coi suoi soldati che circondano la foresta
tutto quello che si muove diventa un bersaglio
tutto quello che compare al bordo della foresta
tutto quello che notano che non c’ha lo stesso colore degli alberi
e che non si muove allo stesso modo.
Io sono stato a sentire tutto questo e mi sono detto che da tutte le parti è la stessa cosa
più mi faccio prendere a calci in culo e più sarò straniero
loro finiscono qua e io finirò laggiù
laggiù dove tutto quello che si muove sta nascosto nelle montagne
Io ho ascoltato tutto questo e mi sono detto: “Io non mi muovo più, se non c’è lavoro non lavoro se il lavoro mi deve far diventare matto e mi devono prendere a calci in culo, io non lavoro più. Io voglio sdraiarmi, una buona volta, voglio spiegarmi, voglio l’erba
l’ombra degli alberi, voglio urlare, voglio poter urlare, anche se poi mi sparano addosso.
Tanto è quello che fanno. Se non sei d’accordo, se apri la bocca,
ti devi nascondere in fondo alla foresta. Ma allora meglio così
almeno ti avrò detto quello che ti devo dire.
ESODO di Emma Dante
TRAMA E ANALISI
Esodo è uno spettacolo di Emma Dante, nota regista teatrale, attrice teatrale e drammaturga italiana, conosciuta per la sua ricerca dell’immediatezza comunicativa, ed è frutto di un lungo lavoro che la regista ha condotto con i suoi collaboratori e con gli allievi della “Scuola dei mestieri dello spettacolo” del Teatro Biondo di Palermo. Si tratta di una riscrittura del mito di Edipo in chiave contemporanea che descrive il bisogno di accogliere le differenze, in nome di un’origine e di un destino comune.
“Esodo” (dopo aver debuttato a luglio al festival di Spoleto), è andato in scena nella Sala Grande del Teatro Biondo di Palermo. Nella riscrittura contemporanea, Edipo, con la sua numerosissima e coloratissima famiglia, raggiunge i sobborghi di Atene. La sua famiglia è composta da nomadi, zingari, migranti e uomini e donne irregolari accampati provvisoriamente fuori dalle nostre città. Sono persone in cerca di una giusta e umana pietà dell’accoglienza. A poco a poco quella tendopoli si colora di panni stesi al sole, di bagagli accatastati, dove si gioca e si svolgono danze corali. Accadono scontri tra uomini, si odono suoni, canti e parole che salgono in cielo a raccontare la storia di Edipo. La storia di Edipo è quella del nuovo re di Tebe capace di sconfiggere la Sfinge, figlio e assassino inconsapevole del padre Laio, figlio e marito di Giocasta, padre e fratello di Antigone e di Ismene, di Eteocle e di Polinice, causa di salvezza e morte della sua città. Un potente ossimoro accompagna la storia del nostro eroe tragico, egli è un uomo del tutto cieco mentre era in possesso della vista e del tutto capace di vedere quando non possiede più gli occhi. Nello spettacolo di Emma Dante questo gruppo di esuli che accompagna il protagonista, esule per scelta, racconta la potenza di chi riesce ad accogliere, a tradurre e comunicare l’incredibile storia di Edipo.
TRILOGIA TEATRALE DI CESARE LIÈVI
Regista, drammaturgo e poeta di fama europea, Cesare Lièvi inizia la sua carriera nei primi anni Ottanta. Particolarmente attento alla messa in scena e alle potenzialità del linguaggio, dimostra particolare sensibilità per la drammaturgia contemporanea europea e si impone la sfida, in qualità di autore e di regista, di tematizzare, nelle sue ideazioni teatrali, cosa significhi veramente immaginare e rappresentare esseri umani, situazioni, vicende come affermazioni di una realtà che non corrisponde a quella che noi riteniamo sia la realtà effettiva.
Dal 1996 al 2010 è direttore artistico del CTB Teatro Stabile di Brescia.
Il CTB Teatro stabile di Brescia è uno dei diciassette teatri stabili pubblici italiani, nato nel 1974 per iniziativa di una compagnia che aveva raggiunto un livello di qualità nazionale (la Compagnia della Loggetta), del comune di Brescia e della provincia di Brescia, cui si è affiancata nel 1991 la Regione Lombardia.
La nuova linea culturale introdotta da Lievi al CTB ha visto la valorizzazione della drammaturgia contemporanea italiana ed europea; l’abbattimento delle barriere convenzionali tra teatro di tradizione e teatro sperimentale; la progettazione di spettacoli per spazi non teatrali, alla ricerca di sempre nuove fasce di pubblico.
Tra le ultime opere realizzate per il Teatro Stabile di Brescia si ricorda l’ideale “trilogia dello straniero” composta da Fotografia di una stanza (2005), Il mio amico Baggio (2007), La badante (2009), il cui filo conduttore è una riflessione poetica sui temi dell’immigrazione e del lavoro, sui cambiamenti indotti nella nostra società dalla presenza dei nuovi immigrati, “stranieri” che entrano nella nostra vita facendo esplodere contraddizioni sociali e mettendo in discussione abitudini quotidiane.
Interpreti: Stefano Santospago, Carla Chiarelli, Alessandro Averone.
TRAMA E ANALISI
Fotografia di una stanza scritta e diretta da Cesare Lièvi nel 2005, racconta una storia semplice, colta nella quotidianità. Si tratta di un’opera in tre atti, come se fossero tre “flash” dello stesso luogo: l’interno di un elegante appartamento borghese il cui arredo è stato affidato a due tappezzieri, Giuseppe, cinquantenne italiano interpretato da Stefano Santospago, e Dragos, un extracomunitario dell’Est di 25 anni interpretato da Alessandro Averone.
Lo spettacolo è costruito sul dialogo tra i due uomini che risuona nello spazio vuoto della stanza. Attraverso il flusso delle loro parole entra in scena il mondo intero: il pregiudizio e la fame d’affetto, i sogni e le speranze.
Le situazioni proposte nello spettacolo sono aperte e l’autore lascia al pubblico la possibilità di mettere in discussione il suo sguardo sulla realtà.
IL MIO AMICO BAGGIO (2006)
Interpreti: Giuseppina Tura, Gustavo e Denniel, Daniel Meininghaus, Davide Fumagalli, Carlo Ferretti, Ernesta Zanotti, Monica Cecardi.
TRAMA E ANALISI
Seconda della trilogia dello straniero, Il mio amico Baggio è un’opera teatrale scritta e prodotta dal regista Cesare Lièvi nel 2007. L’opera attraverso la voce narrante di Giuseppina Turra ripercorre le vicende di due ragazzi brasiliani, Gustavo e Daniel, cantanti di sertao che decidono di lasciare il loro paese d’origine per fare fortuna, dopo essere stati ingannati da un produttore senza scrupoli. L’autore mette in luce le speranze dei due giovani, le difficoltà di vivere nella loro condizione di stranieri. I due vorrebbero far fortuna con le loro canzoni, ma si ritrovano a fare da domestici, fino a quando non vanno un provino per entrare a far parte di uno spettacolo. Il provino, purtroppo andato male, è il momento in cui vedono tutti i loro sogni andare in frantumi.
Davanti ad un’umanità allo sbando e affamata di visibilità lo sguardo sull’emarginazione passa dai due brasiliani alla società italiana. Dopo quell’esperienza Gustavo e Denniel decidono di tornare in Brasile e dicono chiaramente di aver perso la loro “finale”, come accadde a Baggio nella finale dei mondiali col Brasile.
Attraverso uno stile tipicamente cinematografico il regista Cesare Lièvi offre un ritratto dell’Italia piuttosto inquietante. Di fronte ad un paese allo sbando che sta “sbagliando tutti i suoi calci di rigore”, Il mio amico Baggio si vuole porre come veicolo di riflessione sulla realtà, mostrare agli spettatori il rapido declino della società per far sì che al calare del sipario possano essere un po’ più consapevoli della situazione che sta vivendo il Paese.
LA BADANTE (2008)
Interpreti: Ludovica Modugno (madre), Emanuele Carucci Viterbi e Leonardo De Colle (figli), Paola Di Meglio (moglie), Giuseppina Turra (badante).
TRAMA E ANALISI
Terza ed ultima opera della trilogia dello straniero, La badante (2009) di Cesare Lièvi completa la riflessione sui cambiamenti indotti alla nostra società dalla presenza dei nuovi immigrati mettendo in scena, come già anticipato dal titolo, il tema del lavoro a domicilio nel nostro paese di matrice extracomunitaria.
La storia si svolge in tre atti. Il primo atto si apre con la presentazione di una madre, astiosa e avanti con l’età, si interfaccia con i suoi due figli in modo ansioso, sperando di attirare l’attenzione. In risposta alle angosce di questa donna, i figli, piuttosto disinteressati alla salute della madre, decidono di affiancarle una giovane badante ucraina che lei non riesce a sopportare un po’ per diffidenza nei confronti degli stranieri. Solo con il tempo si renderà conto che è proprio la badante “straniera” con il suo buonumore, la sua vitalità a tenerla legata alla vita.
NEL MARE CI SONO I COCCODRILLI (2011) regia di Briguglia e Natoli
Interprete: Paolo Briguglia
Musiche originali: Fabio Zeppetella
Regia di: Paolo Briguglia e Edoardo Natoli
Spazio e costumi: Alessandra Traina
Paolo Briguglia è un attore italiano formatosi all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma.
La sua strada incrocia per la prima volta la storia di Enaiatollah quando la casa editrice Emos gli ha proposto di realizzare per il loro catalogo l’audiolibro dal romanzo di Fabio Geda: “Rimasi folgorato dalla vicenda di questo bambino che all’epoca dei fatti che racconta era davvero piccolo, a lungo ho pensato che solo l’incoscienza della sua giovane età potesse averlo salvato dalla consapevolezza dell’orrore che tutta questa storia porta con sé. Storia che curiosamente si conclude con un lieto fine e con una parabola di integrazione che ancora rappresenta un fatto raro nel nostro paese, così pigro a riconoscere diritti e rivendicazioni legittime in battaglie di civiltà”.
Briguglia ha portato la storia di Enaiat a teatro per quasi 11 anni e lo ha presentato a Lampedusa in occasione del Premio Giornalistico Internazionale dedicato a Cristiana Matano.
TRAMA E ANALISI
Nel mare ci sono i coccodrilli è una favola amara e contemporanea tratta dall’omonimo libro di Fabio Geda e messa in scena con un monologo ricco e articolato da Paolo Briguglia e Edoardo Anatoli.
Come dice l’autore: “Se nasci in Afghanistan, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, può capitare che, anche se sei un bambino alto come una capra, qualcuno reclami la tua vita”.
E questa è la storia vera di Enaiatollah Akbari, un bambino afghano costretto a barattare la propria innocenza in cambio della sopravvivenza.
Dopo la morte del padre avvenuta a causa di un incidente sul lavoro Enaiatollah diventa merce di scambio per ripagare il danno arrecato dal padre al suo padrone, per questo ogni volta che bussano alla sua porta è costretto a nascondersi.
Crescendo, nascondersi non è più la soluzione fin quando un giorno la madre decide di portarlo lontano. Lo accompagna in Pakistan, gli accarezza i capelli, gli fa promettere che diventerà un uomo per bene e lo lascia solo. Da questo tragico atto d’amore inizia la prematura vita adulta di un bambino, un viaggio che lo porterà in Italia attraversando l’Iran, la Turchia e la Grecia, fatto di infiniti pericoli, paure, vita in strada e soprattutto coraggio che gli hanno permesso di cambiare e riscrivere il proprio destino.
Si tratta di un’odissea moderna, tristemente contemporanea, una riflessione attualissima sulle migrazioni. Una storia che costringe lo spettatore a confrontarsi con una realtà lontana ma in realtà non così tanto, che si preferisce guardare con indifferenza piuttosto che affrontare. Un racconto pieno di speranza, speranza di sapere che esistono possibilità di salvarsi grazie anche all’aiuto di persone generose che sanno cosa significhi accoglienza. Parola che qualcuno vorrebbe cancellare dalla nostra storia comune, una storia fatta di sofferenza e migrazioni
LA TRILOGIA DI UN NAUFRAGIO di Lina Prosa
La Trilogia del naufragio è un’opera teatrale della drammaturga siciliana Lina Prosa, e fa parte di un teatro della migrazione che interroga il fenomeno portandolo in scena.
Iniziata nel 2003, conclusa nel 2013, anno in cui Prosa diviene la prima italiana ad essere portata in scena alla Comédie-Française, vedendosi riconosciuto due anni dopo il premio della critica teatrale italiana, la trilogia esordisce negli anni successivi sui palchi del Teatro Biondo Stabile di Palermo e del Teatro Piccolo di Milano.
Nel 2016 la drammaturga riceve il riconoscimento di “Chevalier des Arts et des Lettres” da parte del Ministro della cultura francese.
Intrecciando la sua formazione classica sul teatro greco, con un’attenzione particolare ai personaggi femminili, e le questioni del mondo contemporaneo, Lina Prosa ne La trilogia del naufragio indaga e propone una riflessione trasversale su diverse tematiche: il tema del corpo, in particolare del corpo della donna, il moltiplicarsi delle frontiere fisiche e mentali nella condizione esistenziale della persona migrante, le temporalità coinvolte nell’esperienza migratoria.
Il teatro diventa dunque possibilità di scomporre e decostruire le narrazioni e i discorsi dei media sulla migrazione, divenendo strumento per dare voce alle storie che si pensano e si raccontano in relazione a Lampedusa, luogo fisico e simbolico a metà tra l’Italia e l’Africa, rievocato in ciascuno dei tre capitoli come luogo buono-per-pensare e buono-per-rappresentare la migrazione.
LAMPEDUSA BEACH
Da quella cima per un attimo, nel dondolìo violento
del barcone,
ho visto Lampedusa.
L’ho vista con i tuoi occhiali.
Prima di affogare voglio dirti com’è.
Lampedusa è chiara.
Ha un puntino azzurro sulla costa più alta.
Ha un alone giallo sulla sua destra, non so se è sabbia di mare.
o un lembo di deserto che arriva al mare come da noi.
Una palmetta dinnanzi alla casa più vicina alla costa
sembra un ciuffo di capelli di una regina cresciuta con latte di cocco.
Ho visto chiaramente il rapporto tra il pesce
e lo scoglio di Lampedusa: il pesce gli va incontro senza ferirsi.
Come da noi.
Non esagero a dirti che Lampedusa mi è sembrata Triburti.
Ho sorriso
TRAMA E ANALISI
La scena si svolge in mare, con la protagonista, Shauba, che scorge in lontananza Lampedusa e affida al proprio monologo l’intreccio tra la traiettoria passata, il proprio presente, e le speranze irrealizzabili del futuro.
Il tempo di Lampedusa Beach è quello della discesa nel mare della protagonista, di una caduta verticale in cui il monologo diventa a più voci. Shauba dialoga con Mahama, sua zia adottiva, con la madre, con i Capi di Stato di Italia e Africa e con un tenente della caserma di Lampedusa.
Rievoca le circostanze della partenza, i motivi per cui è stata costretta a scappare, i preparativi, il viaggio di 700 corpi stipati sul barcone, la violenza degli scafisti e il naufragio.
La spiaggia di Lampedusa, metà agognata quanto irraggiungibile, è per Shauba terreno comune, frontiera di contatto. Questo l’appello lanciato nel rivolgersi ai Capi di Stato e al gendarme.
Il corpo che ha subito violenza prima di trovarsi tra le onde è associato, nella propria discesa verso gli abissi, a una serie di immagini biologiche che ne rivelano l’imminente fine: un bacio a una sardina, il marcire di una foglia, i corpi senza vita dei compagni di viaggio.
La voce, tuttavia, continua il proprio monologo, interpella il pubblico, i significati storici, politici e sociali della migrazione, il vissuto di violenza. In fondo e sul fondo, affida al palcoscenico le proprie speranze, scandendo chiaramente: «il mio naufragio non è fatto che si conclude».
LAMPEDUSA SNOW
Vado ancora più su.
Verso il valico.
Cosa può succedermi?
Niente di più di quanto avvenuto in quel barcone
rimesso in mare dopo anni di ruggine e di marciume
su cui nessun marinaio di professione
avrebbe mai scommesso […].
Su quella carretta in seicento
nessuno poteva muoversi
senza la partecipazione di tutti […].
Qui in mezzo alla neve, sono autonomo.
Mi muovo da solo.
Faccio tutto da solo.
Cado, mi alzo, mi sposto.
Tutto dipende da me
TRAMA E ANALISI
Mohamed, fratello di Shauba, si trova da sei mesi in un albergo isolato delle Alpi in attesa che le autorità italiane esaminino la sua richiesta di asilo.
In Lampedusa Snow la frontiera si sposta, raddoppiandosi: Lampedusa si configura come la frontiera della speranza, della rinascita, della riuscita. La sua spiaggia si fa simbolo salvifico del successo della traversata.
Mohamed si trova però ad essere trasferito al nord, nel freddo del panorama alpino, isolato dalla società in cui aveva riposto la fiducia di poter riprendere in mano la propria vita per ripartire. Si trova in mezzo alla neve, che vede per la prima volta nella sua bianchezza. La mangia per poter essere accettato dalla comunità bianca alpina in cui si trova, alla ricerca di nuovi punti di riferimento per orientarsi in un mondo a lui sconosciuto.
Come nel caso di Shauba, il dialogo del fratello si fa polifonico, ripercorrendo il viaggio e gli oggetti-feticcio portati con sé per riuscire nell’integrazione. Mohamed lascia emergere il contrasto della doppia frontiera tramite la descrizione dell’isolamento verticale verso l’alto delle montagne alpine, in contrapposizione con la discesa sui fondali di sua sorella Shauba. Ne descrive l’inerzia, la ripetitività, il disorientamento.
Lampedusa Snow sembra riecheggiare la condizione di margine e di smarrimento rispetto alla propria identità che il socio-antropologo algerino Abdelmalek Sayad descrive come doppia assenza nel caratterizzare il vissuto degli immigrati algerini in Francia: la persona migrante non appartiene più alla propria società di origine, ma non sente di appartenere e di poter essere compresa e accolta pienamente nemmeno in quella di arrivo. Questa doppia assenza è il riflesso sul piano individuale di alcune dinamiche strutturali su cui l’esperienza di Mohamed aiuta a riflettere: imbrigliate nelle dinamiche di potere e nelle condizioni socio-economiche del proprio paese, le persone che scappano si trovano costrette a farlo, per poi trovarsi nuovamente in una condizione di marginalità nel luogo in cui arrivano.
Mohamed si rifugia quindi nei sogni: una dimensione, quella onirica, che Lina Prosa utilizza più volte nelle proprie opere, avendo come riferimento il teatro greco.
Infine, l’ultimo movimento: la fuga dall’albergo e la scalata solitaria della montagna, contrapposta all’affollata traversata dell’altra frontiera, il mare. Una scalata in cui Mohamed sperimenta per la prima volta la possibilità di scegliere, con rimandi al mito fondatore dei viaggi sul Mediterraneo, quello di Ulisse.
L’ironica conclusione è quella della notizia del ritrovamento del corpo di Mohamed sulla cima della montagna con addosso il documento di richiesta di asilo politico e una lettera d’amore contenuta nella felpa-feticcio del precedente proprietario suicida. I media riportano dunque la notizia lasciando intendere che Mohamed si sia ucciso per amore, amaro specchio dell’invisibilità di cause, corpi e storie che sul palco provano a essere raccontate.
LAMPEDUSA WAY
Saif: bisogna scomparire, ma come?
Mahama: lo faremo a poco a poco, come avviene nel naufragio…prima mettiamo in atto la furiosa resistenza del naufrago…il resto lo affronteremo al momento. […]
Saif: questo va bene per scomparire e poi per riapparire?
Mahama: lo sapremo al momento.Saif: non è meglio saperlo prima?
Mahama: ogni naufragio è unico, è uguale solo a sé stesso.
Saif: cominciamo…cominciamo a scomparire.
Mahama: facciamolo nel migliore dei modi.
Saif: guarda lì, lo scoglio ha un nascondino, gli girano intorno almeno mille
gabbiani, fanno la ronda, è il segno che quel posto è sicuro.
TRAMA E ANALISI
L’ultimo capitolo della trilogia vede in scena Mahama, zia di Shauba, e Saif, zio adottivo di Mohamed, che insieme sulla spiaggia di Lampedusa cercano tracce dei loro nipoti dopo essere arrivati lì su una nave da crociera come turisti.
La scena, riecheggiando Waiting for Godot, li vede in attesa di un fantomatico personaggio, “il Cappittalista”, che però non arriverà mai.
Dopo le dimensioni temporali in verticale verso il basso e verso l’alto dei due capitoli precedenti, Lampedusa Way si sviluppa in una staticità orizzontale paradossale nel contrasto che si crea su una spiaggia che vede tanto turisti quanto profughi.
Con richiami continui a Beach e Snow attraverso il tema del sogno e degli oggetti che fanno da eco alle storie di Shauba e Mohamed, i protagonisti rimangono ad aspettare la figura del “Cappittalista” che non si presenterà mai fisicamente e che assume simbolicamente la forma del modo di produzione e del sistema ideologico che ha prodotto le dinamiche del colonialismo nel continente africano.
Questo piano di attesa interminabile e di impossibilità a comunicare con l’Occidente viene esemplificato ulteriormente dal dialogo con un vigile, le cui risposte rivelano che tipo di sguardo viene rivolto alle storie individuali delle persone migranti: uno sguardo invisibilizzante e spersonalizzante che non può restituire dignità a quelle vite.
Per questa ragione la conclusione della trilogia vede Mahama e Saif scegliere di crearsi degli spazi di autonomia all’interno del sistema entro cui si trovano, scelta che si configura con la rinuncia al rientrare in patria per vivere da clandestini e continuare la ricerca dei nipoti.
TRILOGIA DEL DESERTO
La trilogia del Teatro del deserto si inserisce all’interno della progettualità dell’associazione culturale ArteStudio, il cui lavoro teatrale mira a rileggere le opere classiche della storia del teatro interrogando al tempo stesso le dinamiche del mondo contemporaneo.
Il teatro, inteso come pratica incorporata, diventa dunque mezzo attraverso il quale informare, fornire chiavi di lettura e mostrare la realtà, raccontandola con il proprio corpo, lo spazio scenico e la recitazione, e avvalendosi della collaborazione con le realtà del territorio, dando spesso voce a coloro i e le quali non hanno modo di essere ascoltati, di raccontarsi.
In questo senso, nel corso di un’attività di trent’anni, ArteStudio ha intrecciato collaborazioni con le carceri, i centri di igiene mentale, le ASL, i centri di accoglienza per rifugiati e ha avviato diversi progetti nelle zone di conflitto, in particolar modo nel Medio Oriente.
È grazie alla figura di Riccardo Vannuccini, direttore artistico dell’associazione, che si sono poste le basi per seguire questa direzione, dando al teatro il valore significativo di essere strumento di re-integrazione culturale, sociale e identitaria.
In particolare, il progetto Teatro in fuga, da lui coordinato, ha visto la realizzazione di laboratori teatrali in coordinamento con alcune ONG in Iran, Libano, Giordania e Palestina, oltre che workshops in diversi Sprar di tutta Italia.
All’interno di questa progettualità si inserisce anche la Trilogia del deserto, composta da Sabbia (2015), Respiro (2016) e Africabar (2017).
SABBIA
«SABBIA è un movimento plurale di cerchi, un bordo utile all’apparizione dei contrasti. Un girotondo di esercizi poetici, spirituali oppure il making of di un paesaggio che muta come un pugno di sabbia ad ogni passaggio di vento», dice Riccardo Vannuccini, regista della trilogia.
TRAMA E ANALISI
Lo spettacolo è stato realizzato insieme a venti rifugiati provenienti dall’Africa e ospitati nel C.A.R.A., il Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto (Roma).
Attraverso il modo peculiare dell’Associazione ArteStudio, che intende la performance teatrale come poco dialogata e parlata sulla scena, privilegiando la dimensione gestuale, il mostrare sul palco rendendo il pubblico testimone delle storie che vengono raccontate.
Storie di viaggi, come il Riḥla di Ibn Battuta, uno dei testi che lo ha ispirato; storie di notti fredde nel deserto, di traversate, di quotidianità infrante, di un posto che non si trova – come mostra la sedia che viene spostata più volte sul palcoscenico nel corso dello spettacolo; sono storie di amori proibiti nel proprio paese che sognano di essere vissuti altrove, di segreti sussurrati prima di affrontare le onde, di identità perdute, testimoniate dai fogli bianchi che solcano la scena.
La storia che si racconta non è solamente la propria, ma anche quella di chi ha visto il proprio viaggio interrompersi: richiedenti e rifugiati non salgono sul palco solamente per sé, ma per tutti coloro i quali avrebbero potuto essere insieme a loro.
Essere presenti sulla scena e fuori.
Ernesto De Martino indicava con l’espressione «crisi della presenza» la perdita dei riferimenti culturali, sociali, morali e storici che permettono alle persone di agire e di orientarsi nel proprio mondo, condizione che sembra corrispondere al senso di disorientamento che provoca la migrazione forzata. Domandando a Vannucci cosa abbia vissuto chi è stato coinvolto nei mesi di preparazione dal suo punto di vista, la sua risposta sembra andare proprio in questa direzione:
Hanno ripreso un senso di presenza nel mondo. Sono meno spaventati, meno fuori luogo, meno spaesati. Il teatro aiuta ad apprendere quella che è la nostra linea d’orizzonte: dove sono, con chi sono, che cosa sto facendo. Quando i rifugiati sono travolti dal destino, senza sapere perché stanno qui, queste cose rischiano di travolgere anche quello che è identitario dell’essere umano. In questo caso, grazie al lavoro che abbiamo fatto assieme, un lavoro lungo e faticoso, ma anche divertente, queste persone oggi sono più presenti.
Sabbia costituisce dunque il primo capitolo di una trilogia che vuole avvicinare ai significati, alle cause e ai vissuti della migrazione forzata, restituendone un punto di vista inedito grazie al coinvolgimento delle persone protagoniste di queste traiettorie.
RESPIRO
«Inspirare, espirare. Accanto a me uno senza respiro. Il respiro affannato che ho attraversato il deserto due volte e per due volte mi sono perso. Il respiro trattenuto perché i soldati mi potevano trovare. Respiro piano mentre il camion gira fra le montagne. S’è fermato il respiro quando il mare ha coperto ogni cosa compreso il cielo. Un lungo respiro appena sono uscito dall’acqua. Ancora un respiro quando ho visto le sirene che cantavano tra le onde con mimose e lillà. Un respiro profondo prima d’incontrarti», dice Riccardo Vannuccini su Respiro.
TRAMA E ANALISI
Rilettura contemporanea dell’Amleto di Shakespeare, Respiro è il secondo spettacolo realizzato sotto la direzione di Vannuccini con le persone rifugiate e richiedenti asilo del centro di Castelnuovo di Porto.
Respiro rinuncia alla linearità della narrazione per privilegiare scene corali, convocando i corpi sul palco a una prossimità evocativa delle proprie radici che viene messa in condivisione con il pubblico per raccontarsi, per assottigliare quella linea che si crea tra Noi e gli Altri, e per mostrare come ciò che realmente comporta una differenza sottile siano proprio i respiri: esalati con sollievo e dolore dopo il viaggio, o spezzati e perduti lungo il percorso.
L’elemento dell’acqua percorre tutto lo spettacolo proprio in questa doppia accezione: fonte di vita e, al tempo stesso, potenzialmente mortifera nel sommergere chi non riesce ad attraversare con successo il Mar Mediterraneo.
Anche in questo caso, dialogando con Shakespeare e altri classici, lo spettacolo vuole entrare in dialogo con le dinamiche del mondo contemporaneo attraverso una performance di carattere meramente estetico, una “pratica di buona salute”: non ci sono denunce esplicite, dialoghi pedagogici o battute che rimandino alle migrazioni forzate, soltanto corpi che si espongono e si raccontano attraverso gesti e azioni condivise, che interpretano – nel duplice senso di “rileggere la propria esperienza come testimonianza” e “mettere in scena” – sul palco le proprie storie, i propri respiri.
AFRICABAR
«Non sono i dati che ci fanno comprendere la realtà, ma la fantasia con la quale riusciamo a combinare questi dati», dice Riccardo Vannuccini su Africabar.
TRAMA E ANALISI
A chiudere la trilogia, Africabar si inserisce nella stessa ottica dei capitoli che lo precedono: contrastare la retorica e la narrazione dei media riguardo al fenomeno delle migrazioni forzate, dando volti, corpi, lingua e scena a ciò che nell’immaginario collettivo si configura come dato, statistica, etichetta, categoria.
Lo fa attraverso la molteplicità disordinata: sul palco si mischiano lingue, colori, accenti, corpi, tradizioni culturali e religiose. Il pubblico è invitato a concentrarsi sul suono delle voci, e non sul significato delle parole. La sollecitazione della fantasia come facoltà percettiva e produttiva di combinazione degli stimoli che si ricevono per conferire senso, o più sensi a ciò cui si assiste.
Fluttua la fantasia dello spettatore come gli elementi e le persone sulla scena.
Fluttuano fogli di carta sparsi e lanciati in aria, quei fogli che hanno il potere di sancire i diritti delle persone: documenti, cedolini, permessi di soggiorno, visite mediche; il rischio diventa la paralisi.
Invece, chi agisce in scena fluttua, come le persone richiedenti asilo e rifugiate nella propria esperienza di vita: il teatro si fa strumento di riavvicinamento alla possibilità di immaginare, di immaginarsi una vita, un futuro, speranze, contrastando quella paralisi prodotta dall’evento traumatico della migrazione. Il teatro si fa spazio di senso, non dato e individuato ma agito, vissuto.
È un teatro che si esplica nella direzione dell’improduttività quello di Vannuccini, proprio perché vuole farsi metafora della vita, superando il senso della rappresentazione (e dell’esistenza) attraverso l’azione.
SOUS UN CIEL BAS تحت سماء و١طئة UNDER A LOW SKY
Testo e direzione: Wael Ali
Con: Sharif Andoura, Nanda Mohammad
Produzione: Les Bancs Publics – festival Les Rencontres à l’échelle
Coproduzione: Performance beyond two shores, progetto sostenuto dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma Europa Creativa ; Pôle des arts de la Scène — Friche la Belle de Mai Marseille (Francia) ; Arab arts focus
Waël Ali
Scrittore e regista siriano, Waël Ali è nato nel 1979. Nel 2004, si è diplomato presso l’Istituto superiore di arti dello spettacolo di Damasco. Ha continuato gli studi in Francia, a Lione, dove ha conseguito un Master di II° livello in Performing Arts presso l’Université Lumière di Lione. Ha lavorato come drammaturgo a diverse produzioni, in particolare in un progetto interattivo in Siria.
TRAMA E ANALISI
Sous un ciel bas, سماء و١طئة Under a low sky (2019) è uno spettacolo di teatro-documentario scritto e diretto dal regista siriano Wael Ali e prodotto da Les Bancs Publics – festival Les Rencontres à l’échelle in collaborazione con Performance beyond two shores.
Performance beyond two shores è un progetto di cooperazione europea tra operatori culturali che mirano a rafforzare la crescita professionale, la produzione e la mobilità di giovani artisti arabi in Europa. Producendo nuove creazioni di qualità, promuovendo il dialogo e la condivisione di esperienze tra artisti, raggiungendo un nuovo pubblico.
Il progetto è supportato dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma Europa Creativa e si basa su una forte partnership tra istituzioni culturali europee. Tutti i partner producono eventi culturali e artistici di alta qualità impegnati nella regione euro-mediterranea.
L’obiettivo è creare una nuova narrativa dell’Europa aperta basata sul dialogo interculturale, l’accettazione reciproca, la curiosità e l’apertura all’altro.
Protagonista dello spettacolo Sous un ciel bas, سماء و١طئة Under a low sky è la storia vera di un amico del regista Waël Ali, la storia di Jamal. Jamal è un documentarista siriano quarantenne, uno di quella generazione che si è perduta con la guerra che ormai da alcuni anni vive in Francia e che ossessionato dalla perdita del suo passato non riesce a vivere il suo presente.
Come posso guardare il presente se non ho più un passato? dice Waël Ali a proposito della performance.
Intrappolato dall’idea della mancanza di un passato, poiché tutti i luoghi e le persone della sua vita a Damasco sono scomparse, decide di intraprendere un viaggio con l’obiettivo di scoprire e riscrivere la sua storia.
Waël Ali nella sua opera, grazie alla sua vasta esperienza, fa coabitare due registri — l’intimo e il politico —, che mettono in dialogo una moltitudine di sguardi e temporalità convergenti verso uno stesso oggetto: un territorio sempre in fuga.
LA PASSIONE GRECA (The greek passion)
Bohuslav Martinů è un compositore di origini boeme, nato a Polička nel 1890. La sua passione per la musica e per il teatro lo portarono a vincere una borsa di studio a Parigi, dove si trasferì nel 1923. Nel 1940, tuttavia, i gravi eventi bellici del periodo lo costrinsero a lasciare la Francia e approdare negli Stati Uniti, dove intraprese la carriera di professore di composizione fino al 1952, anno in cui ottenne la cittadinanza americana. Tale condizione di rifugiato ispirò la sua ultima opera, “The greek passion”. Visse il resto della sua vita spostandosi per varie città europee e morì a Listal, Basilea, nell’agosto del 1959.
La passione greca è un’opera lirica in 4 atti del compositore boemo Bohuslav Martinů (1890-1959), il cui libretto in lingua inglese è basato sulla traduzione di Jonathan Griffin del romanzo “Ο Χριστός ξανασταυρώνεται” (Cristo fu crocifisso di nuovo) di Nikos Kazantzakis. Il libro (e l’opera) raccontano la storia dei sopravvissuti a un massacro turco che cercano rifugio in un villaggio greco dove la popolazione locale si sta preparando per i propri “spettacoli della passione” annuali. Una prima versione dell’opera risale al 1957, anno in cui Martinů la offrì alla Royal Opera House di Londra, che tuttavia non venne mai messa in scena fino al 1999, quando venne presentata al pubblico del Festival di Bregenz dopo il restauro da parte di Aleš Březina. Nel frattempo, il compositore ne aveva creata una seconda versione, la quale venne eseguita per la prima volta allo Städtisches Theater di Zurigo nel 1961, post mortem.
Una tra le interpretazioni più recenti e ben riuscite dell’opera “The greek passion” è quella messa in scena dalla compagnia inglese Opera North nel 2019.
Musiche originali: Bohuslav Martinů
Regia di: Christopher Alden
Costumi: Doey L¸thi
Coreografia: Tim Claydon
Produzione, Coro e Orchestra: Opera North
Opera North è stata fondata nel 1977 come English National Opera North (ENO North), in risposta alla richiesta di più produzioni d’opera nelle città di provincia inglesi. Ad oggi ha base a Leeds, presso il Grand Theatre, dove si esibisce regolarmente in spettacoli, sposandosi anche nel Regno Unito e nel resto d’Europa.
Il regista Christopher Alden opta per un set minimale e un abito moderno e, con il designer Charles Edwards, fornisce una rappresentazione della risposta della società ai richiedenti asilo, rappresentando i rifugiati come manichini senza vita. Empatia e considerazione per i rifugiati vengono mostrati da Manolios (Nicky Spence) e Katerina/Mary Magdalene (Magdalena Molendowska), che offrono cibo e riparo ai profughi su una montagna vicina. Gelida indifferenza, invece, viene mostrata dal sacerdote del villaggio Grigoris (Stephen Gadd) che incolpa uno dei rifugiati appena giunti di essere affetto dal colera.
TRAMA E ANALISI
Atto I. L’opera si svolge a Lykovrissi, in Grecia, mentre la popolazione si prepara alla rappresentazione teatrale della Passione di Cristo in vista della Pasqua. La loro passione li porterà alla sempre maggiore impersonificazione della personalità religiosa che si accingono ad interpretare. Manolios, un pastore, viene scelto per il ruolo di Cristo, la vedova Katerina viene scelta per interpretare Maria Maddalena e il suo amante Panait riceve il ruolo di Giuda. Poco dopo arriva un gruppo di profughi disperati. Il capo del villaggio, padre Grigoris, non si fida degli estranei e quando uno dei profughi muore di fame, incolpa la morte del colera e usa questa bugia per espellerli dal villaggio. Manolios e Katerina decidono di aiutare i rifugiati e di condurli in un luogo vicino dove possono trovare riparo.
Atto II. Mentre i rifugiati iniziano a costruire il loro campo su una montagna vicina, Katerina si rende conto di essersi innamorata di Manolios. Uno degli abitanti del villaggio, Yannakos, è convinto di poter trarre profitto dai profughi e parte per sottrarli ai loro beni. Tuttavia, vedendo l’abietta povertà in cui vivono, si vergogna e giura di aiutarli. Manolios e Katerina arrivano ad accettare la loro reciproca attrazione, ma Manolios decide che non può agire di conseguenza. Katerina è sconvolta.
Atto III. Manolios sogna Katerina come la santa vergine, ma viene svegliato da Lenio, la sua fidanzata, con la quale si è allontanato sempre più. Chiede del loro matrimonio e, insoddisfatta della risposta di Manolios, si ritrova invece attratta dal pastore Nikolios. Manolios è sempre più consumato dal suo ruolo di Cristo e fa appello agli abitanti del villaggio perché aiutino i profughi. Vedendo che la sua autorità sta crescendo, gli anziani del villaggio decidono che Manolios deve essere espulso dal villaggio.
Atto IV. Lenio e Nikolios devono sposarsi. Durante le celebrazioni, padre Grigoris condanna Manolios e lo scomunica. Manolios pronuncia un sermone appassionato, chiedendo agli abitanti del villaggio di essere compassionevoli, ma padre Grigoris raduna gli abitanti del villaggio dietro di lui, incitandoli contro Manolios, finché Panait non si avvicina finalmente a lui e lo uccide.
LA PORTA DELLA VITA – Raizes Teatro e Alessandro Ienzi
Raizes Teatro è una organizzazione fondata nel 2019 da Alessandro Ienzi, drammaturgo e regista teatrale, che attraverso l’arte, il teatro e la fotografia promuove la difesa dei diritti umani in spazi teatrali convenzionali e non convenzionali, quali piazze, musei, strade.
La Porta della Vita
La Porta della Vita è un testo scritto da Francesco Viviano, giornalista che ha dedicato la propria ricerca e attività professionale all’osservazione e al racconto dei flussi migratori verso l’Italia, adattato teatralmente e interpretato da Alessandro Ienzi, La Porta della Vita è una raccolta di quattro racconti, quattro differenti punti di vista sul viaggio dall’Africa all’Italia che ogni anno migliaia di persone migranti si trovano costretti ad affrontare in fuga da guerre, fame, persecuzioni, violenze, disastri ambientali. Il primo racconto ha come protagonista Austin, un giovane nigeriano che, dopo aver lasciato il suo villaggio pochi mesi dopo che suo padre fosse assassinato, attraversa il deserto e il mar Mediterraneo in tempesta su un’imbarcazione di fortuna, direzione Lampedusa. Asik, protagonista del secondo racconto, è il comandante del mercantile turco Pinar che riesce a salvare 144 persone in mare. Purtroppo però durante la tempesta ne perde una, una giovane donna di 18 anni incinta che non riesce a sopravvivere e muore annegata. Florent, invece, è una ragazza madre, che appena sbarcata partorisce sua figlia. Decide di battezzare a Lampedusa la sua bimba, frutto di una violenza subita nelle carceri libiche. Infine, il protagonista del quarto racconto è un militare della Guardia di Finanza italiana che durante il suo turno di lavoro si trova costretto a eseguire un ordine disumano: operare un respingimento forzato di 205 migranti in Libia.
NON DIRMI CHE HAI PAURA
Trama e analisi
Non dirmi che hai paura è uno spettacolo teatrale, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Catozzella, nato dall’idea di Giorgia Massaro e con la regia di Laura Ruocco, che racconta la vera storia di Samia Yusuf Omar, una giovane atleta somala che, dopo aver partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008, diventa simbolo di riscatto e libertà per tutte le donne somale, costrette a vivere in una realtà dominata da decenni dalla guerra e dal terrorismo di matrice islamica. Il grande sogno di Samia è quello di correre alle Olimpiadi di Londra del 2012, per questo prende la decisione più sofferta della sua vita, lasciare la sua terra, la sua città, Mogadiscio, per intraprendere un viaggio al di là del Mediterraneo, verso l’Europa, a bordo di una piccola imbarcazione dove però troverà la morte ad attenderla. Un naufragio al largo di Lampedusa spazza via per sempre tutti i suoi sogni insieme alla sua vita.
L’adattamento teatrale dell’opera è stato supervisionato da Catozzella stesso ed è diretto da Laura Ruocco, ballerina, coreografa, attrice e docente di teatro musicale. L’opera teatrale musicale, con il patrocinio di UNHCR e CONI, debutta al teatro Alighieri di Ravenna l’8 luglio 2024 all’interno del festival “Via dell’Amicizia”: Le musiche sono composizioni originali di Alessandro Baldessari a cui si aggiungono anche le musiche di Peter Gabriel e Jill Gabriel, arrangiate dallo stesso Baldessari. Le coreografie sono di Giulio Benvenuti. Questo spettacolo, carico di tensione emotiva dall’inizio alla fine, vuole restituire voce ai desideri di una giovane ragazza e ai suoi sogni, spazzati via dalle acque di un mare che non perdona, in cui sono seppelliti i desideri e le speranze di migliaia di migranti in cerca di una vita migliore.
ORIZZONTE BLU – STORIE MIGRANTI
Orizzonte blu – storie Migranti è un’opera scritta da Giulia Ottaviano, giovane funzionaria impiegata presso l’hotspot di Pozzallo, in cui riporta le numerose testimonianze dei migranti che ha intervistato tutti i giorni all’interno della struttura di accoglienza.
Lo spettacolo, nato da una collaborazione tra la Fondazione Piemonte dal vivo e la compagnia teatrale Asterlizze, una compagnia teatrale che opera all’interno di uno stile contemporaneo le cui performances rappresentano un incontro di forme e linguaggi diversi attraverso l’utilizzo delle arti visive, è un’opera di musica e parole incentrato sul tema della memoria che si propone di dare voce all’esperienza migratoria di quanti tentano di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo. Il monologo teatrale è liberamente ispirato alle interviste effettuate dall’autrice presso l’hotspot e ai Diari Multimediali Migranti (DiMMi). La colonna sonora è eseguita dal vivo dall’orchestra Terra Madre con musiche tradizionali del Burkina Faso, Senegal, Marocco, Tunisia, Calabria e Sicilia, un mix musicale interculturale che mira a favorire il dialogo e tra le diverse tradizioni culturali.