L’idea

Il cambiamento climatico e ambientale di origine antropica sta causando una crisi globale dagli effetti drammatici. La crisi climatica non ha ripercussioni solo sull’ambiente, ma esercita i propri effetti su intere comunità a livello mondiale, costringendo milioni di persone a migrare. Le conseguenze del cambiamento climatico, dunque, influenzano enormemente le dinamiche migratorie mondiali. Spesso i problemi legati al clima incontrano situazioni di vulnerabilità già conclamata. Le crisi ambientali portano a deteriorare strutture economiche già precarie, provocando grandi movimenti migratori strettamente legati agli effetti del cambiamento climatico.

I giovani sono consapevoli della grave crisi climatica in atto e sentono l’urgenza di invertire la tendenza per cercare di salvaguardare il Pianeta e le generazioni future. Lo confermano la nascita di movimenti come Fridays for future o il Climate Strike (Sciopero per il Clima), che coinvolgono ragazzi in tutto il mondo e li mobilitano con l’obiettivo di rendere il cambiamento climatico una priorità assoluta.

Obiettivo del focus

Le migrazioni ambientali rappresentano un fenomeno complesso, causato da vari fattori. Il Focus si pone l’obiettivo di approfondire il legame che sussiste tra le migrazioni forzate e gli effetti del cambiamento climatico.

Proposta di svolgimento

  • Lettura e analisi del materiale proposto.
  • Con la guida dell’insegnante il gruppo classe viene suddiviso in sottogruppi. Ogni sottogruppo sceglie un’area geografica tra quelle proposte nel Focus e ne analizza nello specifico le cause dei movimenti migratori determinati anche dagli effetti del cambiamento climatico.
  • A seguire, ogni sottogruppo simula di presiedere un meeting internazionale che abbia come obiettivo la difesa e l’accompagnamento dei migranti ambientali. Ciascun sottogruppo è invitato a elaborare un piano strategico in 5 punti che esporrà al resto della classe per condividerne il lavoro svolto e gli obiettivi raggiunti.

AMBIENTE E IMMIGRAZIONE

Il cambiamento climatico

Fin dalla rivoluzione industriale del 1830, si è assistito a un progressivo cambiamento del clima dovuto alla combustione di carbone, petrolio e gas che ha fatto aumentare la concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, il tutto ulteriormente corroborato dall’incremento di allevamenti intensivi di bestiame a partire dal 1900. I gas presenti nell’atmosfera terrestre agiscono come il vetro all’interno di una serra: catturano il calore del sole impedendogli di ritornare nello spazio, provocando così il riscaldamento del Pianeta. L’aumento delle temperature provoca un innalzamento della frequenza delle ondate di calore, generando sempre più episodi di siccità e incendi.

Il continuo assorbimento di CO2, inoltre, fa produrre agli oceani più sostanze chimiche acidificanti, provocando una diminuzione dei minerali essenziali per la sopravvivenza degli organismi marini. Inoltre, con l’aumento della temperatura dell’acqua aumenta anche l’evaporazione che provoca precipitazioni molto più intense. I fenomeni climatici estremi facilitano la contaminazione dell’acqua potabile e la conseguente diffusione di epidemie infettive. La tropicalizzazione climatica sta provocando, infatti, sempre di più la diffusione di patogeni che causano nuove malattie.

L’attuale tendenza al riscaldamento dalla metà del 1800 sta procedendo a un ritmo mai visto in prima. È innegabile, dunque, che le attività umane abbiano contribuito a incrementare tale fenomeno producendo gas atmosferici che hanno intrappolato più energia solare nel sistema terrestre provocando il riscaldamento dell’atmosfera, dell’oceano e della terra. Numerose sono le prove del riscaldamento del Pianeta: dall’aumento della temperatura globale allo scioglimento delle calotte glaciali. Le informazioni scientifiche ricavate da fonti naturali (come carote di ghiaccio, rocce e anelli degli alberi) e da apparecchiature moderne (come satelliti e strumenti) mostrano tutte i segnali di un cambiamento climatico. Le carote di ghiaccio prelevate dalla Groenlandia, dall’Antartide e dai ghiacciai delle montagne tropicali, mostrano che il clima della Terra risponde ai cambiamenti nei livelli di gas serra. Prove antiche possono essere trovate anche negli anelli degli alberi, nei fondali oceanici, nelle barriere coralline e negli strati di rocce. Queste rilevazioni scientifiche mettono in evidenza come l’attuale riscaldamento si stia verificando a una velocità di circa 10 volte superiore alla velocità media di riscaldamento dopo un’era glaciale.

La temperatura media della superficie del pianeta è aumentata di circa 2 gradi Fahrenheit (1 grado Celsius) dalla fine del XIX secolo. La maggior parte del riscaldamento si è verificato negli ultimi 40 anni, con i sette anni più recenti che sono stati i più caldi. Il periodo 2011-2020 è stato il decennio più caldo mai registrato, con una temperatura media globale di 1,1ºC al di sopra dei livelli preindustriali nel 2019. Il riscaldamento globale indotto dalle attività umane è attualmente in aumento a un ritmo di 0,2ºC per decennio. Il livello globale del mare è aumentato di circa 20 centimetri solo nell’ultimo secolo.

A seguito dell’aumento della temperatura della Terra di 1,1° C, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP21), tenutasi a Parigi nel 2015, 196 paesi hanno firmato un accordo in base al quale tutti i firmatari sono tenuti a raggiungere degli obiettivi climatici entro la fine del secolo, tra cui quello di mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali.

L’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sottolinea che i prossimi anni saranno cruciali per il futuro del pianeta e dell’umanità. Entro il 2030 si dovranno intraprendere delle azioni per non superare la soglia degli 1,5°C di aumento delle temperature rispetto all’epoca preindustriale. Le emissioni climalteranti globali dovranno raggiungere il loro picco entro il 2025 e poi dovranno necessariamente diminuire di almeno il 43% entro il 2030.

La COP – Conferenza delle Parti

La COP, acronimo di “Conferenza delle Parti”, è la riunione annuale di tutti i Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. La Convenzione è il principale trattato ambientale internazionale sul contrasto al cambiamento climatico, firmato durante la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 1992. L’obiettivo del trattato è quello di ridurre le emissioni di gas serra che sono alla base del surriscaldamento globale. Il trattato, tuttavia, non poneva limiti obbligatori per le emissioni di gas serra, ma prevedeva la stipula di protocolli che avrebbero posto i limiti obbligatori di emissioni. Il principale protocollo stipulato fu quello di Kyoto, pubblicato l’11 dicembre 1997 nella città giapponese in occasione della Conferenza delle parti “COP3“. È uno dei più importanti strumenti giuridici internazionali volti a combattere il cambiamento climatico, precursore dell’accordo di Parigi, del 2015. L’accordo di Parigi è stato il primo incontro della Conferenza delle Parti in cui si sono stipulati accordi vincolanti per il contrasto dei cambiamenti climatici. L’obiettivo di questo accordo era quello di limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2ºC. L’Unione Europea l’ha ratificato il 5 ottobre 2016 ed è entrato in vigore il 4 novembre 2016. Nella ventisettesima Conferenza delle Parti del 2022 (COP 27) si è deciso di creare un Fondo Perdite e Danni con cui i paesi industrializzati hanno riconosciuto la propria responsabilità nell’avere un maggiore impatto sulla crisi climatica sul Sud Globale. In occasione della più recente COP 28, che si è tenuta a Dubai, dal 6 al 17 dicembre 2023, uno dei risultati storici della Conferenza è stata l’adozione di un accordo sull’eliminazione graduale dei combustibili fossili, che impegna le parti alla transizione dai combustibili fossili ai sistemi energetici con l’obiettivo di raggiungere zero emissioni nette entro il 2050. L’accordo rappresenta un significativo passo avanti per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. Tra le novità che porta con sé la COP 28 vi è il lancio di un patto di solidarietà per il clima, tra i paesi industrializzati e quelli emergenti, secondo il quale i paesi più industrializzati sostengono finanziariamente l’azione ambientale dei paesi con il reddito più basso e il finanziamento del Fondo per le Perdite e i Danni, dedicato ai paesi più vulnerabili per affrontare gli impatti della crisi climatica. L’UE e i suoi Stati membri hanno annunciato un contributo di 220 milioni di euro per il Fondo. In ambito finanziario, i Paesi più sviluppati si erano impegnati già durante l’Accordo di Parigi, a mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 per l’azione a favore del clima nei Paesi in via di sviluppo, obiettivo che ad oggi non è stato ancora raggiunto.

Crisi climatica e migrazioni

Sono molte le ragioni che spingono le persone a migrare (politiche, sociali, economiche), il cambiamento climatico può influenzare tutti questi fattori e aumentare la gravità della situazione. In alcune regioni del mondo, infatti, oltre metà della popolazione deve all’agricoltura il proprio sostentamento. In questi casi, anche un minimo cambiamento del clima mette a rischio la possibilità di sopravvivenza e può determinare quindi una migrazione forzata e lo sfollamento delle persone.

Secondo la Banca Mondiale e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a spostarsi a causa delle conseguenze della crisi climatica. L’area più interessata sarà l’Africa sub-sahariana con oltre 86 milioni di persone, seguita dall’Asia orientale e dall’area del Pacifico con 49 milioni, 40 milioni in Asia meridionale e 19 milioni in Africa settentrionale.

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I cambiamenti climatici possono causare migrazioni interne, sia verso le città o le periferie, sia esterni, ossia oltre i confini nazionali. Nel corso del 2023 fenomeni naturali estremi come terremoti, tempeste, inondazioni e incendi hanno devastato intere città, costringendo ancora più persone a rimanere sfollate nell’arco dell’anno e a spostarsi da una parte all’altra del proprio paese. Secondo l’IDMC (Internal Displacement Monitoring Center) nel 2023 il numero di IDP (Internal Displaced People) sfollati interni ha raggiunto un nuovo drammatico record: sono 75,9 milioni le persone che sono state costrette a fuggire dalle loro case, di cui 68,3 milioni a causa di conflitti e violenze e 7,7 milioni a causa di calamità. I cinque Paesi con il più alto numero di rifugiati interni dovuti a eventi catastrofici sono l’Afghanistan (1,5 milioni), il Pakistan (1,2 milioni), l’Etiopia (881mila), la Turchia (822mila) e la Cina (639mila).

Il 98% degli sfollamenti interni dovuti a calamità naturali sono collegati a rischi legati alle condizioni meteorologiche che causano eventi estremi come inondazioni, cicloni, tempeste e siccità. A livello globale, i disastri ambientali hanno provocato in media 45.000 morti l’anno. I più esposti sono i paesi a basso reddito che non hanno sufficienti infrastrutture per proteggere le risorse o per risollevarsi dopo il disastro. Così, l’intensificarsi della frequenza e della gravità di fenomeni meteorologici estremi costringono sempre più le comunità colpite a cercare rifugio in zone più sicure.

In assenza di soluzioni durature allo sfollamento, il numero di persone costrette ad abbandonare le proprie case continuerà ad aumentare. La crisi climatica è anche una crisi umanitaria, poiché non tutela i diritti fondamentali delle persone. La guerra in Ucraina e nella Striscia di Gaza, i conflitti in Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Myanmar, gli eventi climatici sempre più estremi in Somalia, quali siccità, terremoti e inondazioni e il protrarsi della crisi umanitaria in Afghanistan hanno portato, secondo il Global Trends Report 2023 di UNHCR, la popolazione mondiale in fuga a raggiungere il record di 120 milioni. Molto spesso, le persone costrette alla fuga a causa di guerre, violenze e persecuzioni si trovano a dover sopportare anche difficili condizioni climatiche come siccità, inondazioni e temperature estreme. Molto spesso alla base delle guerre, delle violenze e delle persecuzioni subite ci sono ragioni legate all’esasperarsi di situazioni determinate proprio dai cambiamenti climatici. Molto spesso le persone in fuga si rifugiano in campi profughi enormi che sono esposti a gravi rischi climatici. Secondo le stime di UNHCR, il 60% delle persone costrette alla fuga nel mondo si trova nei Paesi più vulnerabili all’impatto dei cambiamenti climatici; paesi come Siria, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Afghanistan e Myanmar.

Molto spesso, persone costrette alla fuga a causa di guerre, violenze e persecuzioni si trovano a dover sopportare siccità, inondazioni e temperature estreme, così come le comunità che le ospitano. Molte persone costrette alla fuga, indipendentemente dalle cause iniziali del loro spostamento, si trovano in quelle che possono essere definite “trappole climatiche”, cioè in insediamenti o campi esposti a gravi rischi climatici. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC) alla fine del 2022 c’erano complessivamente 71,1 milioni di sfollati interni nel mondo, di cui 62,5 milioni in 65 Paesi e territori a causa di conflitti e violenze, e 8,7 milioni in 88 Paesi e territori a causa di disastri.

GUARDA IL VIDEO “Is there a link between climate change and migration?” 

Sfollato climatico

Lo sfollato climatico è una persona che si sposta prevalentemente per motivi legati a un cambiamento improvviso o progressivo dell’ambiente. Tale spostamento può essere temporaneo o permanente, all’interno di uno stato o attraverso una frontiera internazionale.

Da un punto di vista formale e giuridico, infatti, l‘espressione “rifugiato climatico” è impropria poiché non si fonda su nessuna norma presente nel diritto internazionale. Non riflette, inoltre, la complessità con cui il clima e la mobilità umana interagiscono tra loro in un articolato rapporto di cause ed effetti. Il “rifugiato climatico” non rientra all’interno della Convenzione sui rifugiati di Ginevra (1951), poiché individua la persona rifugiata come qualcuno che ha attraversato una frontiera internazionale «a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per un’opinione politica».

Il cambiamento climatico, dunque, non è generalmente accolto come motivo valido per richiedere asilo. Nonostante ciò, anche se il diritto internazionale non contempla forme di tutela specifiche, le persone possono essere considerate rifugiate ai sensi della Convenzione di Ginevra quando i criteri da essa previsti siano soddisfatti. Nella valutazione delle richieste di protezione internazionale presentate nel contesto dei disastri ambientali, si tiene generalmente in considerazione che l’emergenza climatica interagisce con altri fattori che causano le migrazioni forzate. In alcuni contesti la scarsità di risorse dovute alla crisi climatica o la distruzione deliberata di queste, potrebbe essere utilizzata come arma di oppressione nei confronti di alcune parti della popolazione. Oppure l’insicurezza alimentare come conseguenza di carestie potrebbe essere alla base di un fondato timore di persecuzione, nel caso in cui le privazioni fossero attuate in maniera discriminatoria. Seguendo tale approccio, sebbene non tutte le persone costrette alla fuga a causa della crisi ambientale soddisfino la definizione di rifugiato, molte fra di esse possono ottenere lo status di rifugiato rispettando la Convenzione di Ginevra.

GUARDA IL VIDEO DI EURONEWS: “Onu: Ipcc, cambiamenti climatici aumentano fame e migrazioni”

Crisi climatica e conflitti

Negli ultimi anni sempre più esperti hanno ipotizzato e dimostrato il collegamento tra i cambiamenti climatici e l’aumento degli scontri armati che mettono a rischio la sopravvivenza degli individui e costringono milioni di persone a fuggire. Il clima gioca un ruolo determinante in una serie di conflitti regionali in corso. Può essere una causa sottostante, con la siccità o altri fattori che alimentano sconvolgimenti sociali, o può contribuire a peggiorare l’impatto di guerre civili. Da uno studio pubblicato su Nature, è stato dimostrato che il 20% dei conflitti armati dello scorso secolo è stato fortemente influenzato dal cambiamento climatico. Per il futuro, le stime ci dicono che l’aumento della temperatura di circa 2° C accresce la probabilità di conflitto fino al 13%. Nel XXI secolo anche ciclo idrologico ha subìto grandi cambiamenti: le precipitazioni medie sono diminuite, al contrario del livello di frequenza e intensità della siccità che è aumentato. La carenza di risorse idriche comporta un aumento e un inasprimento dei conflitti.

Crisi idrica

L’acqua, elemento vitale e risorsa fondamentale, si trova al centro di molteplici sfide globali, tra cui cambiamenti climatici, migrazioni forzate e conflitti. La crisi climatica si manifesta attraverso un’intensificazione di fenomeni legati all’acqua, quali inondazioni, innalzamento del livello del mare, siccità e incendi, oltre a frane, tempeste, ondate di calore e freddo estremo, epidemie correlate alla salubrità dell’acqua. Questi eventi sono resi ancora più devastanti dall’urbanizzazione accelerata e dal degrado ambientale, che mettono in luce l’urgente necessità di rafforzare la resilienza dei servizi idrici e sanitari e di proteggere gli ecosistemi vitali.

Nei prossimi anni aree sempre più vaste del pianeta saranno colpite da una sempre crescente carenza d’acqua. Conseguenza diretta di questa grave crisi idrica è il cambiamento climatico; l’OXFAM denuncia, infatti, che attualmente oltre 2 miliardi di persone al mondo hanno un adeguato accesso all’acqua e che entro il 2050 la cifra crescerà di oltre 1 miliardo.

La crescita demografica degli ultimi 50 anni insieme all’effetto dei cambiamenti climatici hanno causato la riduzione delle risorse idriche disponibili pro capite del 50%, passando da 16.800 m³ a 8.470 m³. Tale tendenza alla riduzione proseguirà fino ad arrivare entro il 2025 a 4.800 m³ pro capite. A pagare il prezzo più alto della crisi idrica dovuta al surriscaldamento globale, sono i Paesi con un indice di sviluppo basso e che paradossalmente sono anche i meno responsabili delle emissioni inquinanti. In Africa orientale si scavano pozzi sempre più profondi e difficili da mantenere in funzione per trovare delle falde acquifere che spesso si rivelano già esaurite o inquinate. In paesi come la Somali, Kenya, Etiopia, Eritrea, 1 pozzo su 5 risulta già del tutto prosciugato.

Nonostante lo scenario catastrofico, nel 2023 i paesi donatori hanno finanziato appena il 32% dei 3,8 miliardi di dollari richiesti dalla Nazioni Unite per garantire acqua pulita e servizi igienico-sanitari adeguati nelle aree di crisi più colpite, lasciando i Paesi più a rischio senza le risorse necessarie investire in infrastrutture idriche.

Il cambiamento climatico esaspera la crisi idrica in particolare attraverso la scarsità d’acqua, un problema complesso generato da una domanda crescente, infrastrutture inadeguate e sfide istituzionali nella gestione equa delle risorse. Contemporaneamente, una gestione insostenibile delle risorse idriche riduce la qualità e disponibilità dell’acqua, aggravando ulteriormente la situazione.

Questo circolo vizioso colpisce principalmente le comunità più vulnerabili e povere, generando tensioni e conflitti su scala globale. Le persone costrette a lasciare le proprie case a causa di conflitti o persecuzioni spesso cercano rifugio in aree dove l’accesso all’acqua è limitato, una situazione che può essere ulteriormente complicata dalla crisi climatica attuale. Questo scenario rende ancora più arduo il compito di fornire servizi idrici e igienico-sanitari adeguati nelle zone di insediamento dei rifugiati e delle persone sfollate, le quali frequentemente si concentrano in regioni ad alto rischio climatico e prive delle risorse necessarie per affrontare un clima sempre più avverso.

Secondo le statistiche del Cicma (Comitato Italiano Contratto Mondiale sull’Acqua) nell’Africa Sub Sahariana solo il 61% della popolazione ha accesso a fonti sicure di acqua potabile. Entro il 2025, 1.800 milioni di persone vivranno in paesi con assoluta scarsità d’acqua, e circa due terzi della popolazione mondiale si troverà in condizioni di grave stress idrico. I vari effetti del cambiamento climatico stanno avendo degli impatti disastrosi sulla reperibilità di risorse idriche. L’aumento delle temperature e le alluvioni improvvise influiscono sempre di più sulla disponibilità di acqua potabile e distruggono gli ecosistemi presenti nei sistemi idrici che ne mantengono la qualità. La carenza delle risorse d’acqua incide negativamente sulla salute, sulla produzione alimentare, sull’energia, sul settore industriale, sulla sostenibilità ambientale.

L’UNICEF riporta che 2,2 miliardi di persone vivono ancora senza acqua potabile gestita in modo sicuro e che 115 milioni di queste persone bevono acqua di superficie (ad esempio, da fiumi, laghi). I dati dicono che i bambini minori di 15 anni che vivono in Paesi colpiti da conflitti prolungati hanno, in media, una probabilità tre volte maggiore di morire a causa di malattie causate dalla mancanza di acqua sicura, servizi igienici e igiene, piuttosto che a causa di violenze dirette. A causa delle risorse limitate, i rifugiati e le persone sfollate tendono a vivere in aree densamente popolate in cui l’accesso all’acqua e ai servizi igienici spesso non soddisfa gli standard minimi. La densità della popolazione può contemporaneamente ridurre la quantità di acqua sicura per persona e aumentare la probabilità di trasmissione di agenti patogeni e malattie. Nella maggior parte dei siti che ospitano i rifugiati e le persone sfollate, i nuclei familiari non hanno accesso a un bagno individuale ma devono condividerlo con altre persone.

GUARDA IL VIDEO DI GEO: “lotta al cambiamento climatico”

Soggetti vulnerabili

Le statistiche e i casi studiati dimostrano chiaramente la correlazione tra accesso all’acqua, stabilità sociale ed economica e pace. È essenziale una maggiore cooperazione internazionale, una gestione sostenibile delle risorse idriche e un impegno per ridurre le disuguaglianze nell’accesso all’acqua per costruire un futuro più equo e sostenibile. Se solide evidenze empiriche dimostrano come gli eventi estremi ad insorgenza improvvisa contribuiscano in maniera rilevante agli spostamenti forzati, è importante notare come non vi siano dati specifici riguardo agli spostamenti causati da eventi a lenta insorgenza legati alla crisi climatica che non solo è tra i fattori che inducono le persone a spostarsi, ma rende anche più precaria la vita. Secondo l’UNICEF, la grave siccità che ha colpito l’Africa meridionale mette a rischio la sopravvivenza di oltre 300mila bambini. Nel 2024, in quest’area oltre 270.000 bambini soffrono di malnutrizione acuta.

Le condizioni climatiche legate a El Niño, il fenomeno climatico che causa il surriscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico provocando eventi estremi quali inondazioni, siccità e perturbazioni improvvise, hanno costretto vari paesi, tra cui Botswana, Malawi, Namibia, Zambia e Zimbabwe a dichiarare lo stato di calamità alimentare nazionale. L’aumento dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione, l’impossibilità di accesso all’acqua potabile insieme ai gravi rischi di epidemie come il colera costituiscono una seria minaccia per oltre 7,4 milioni di bambini. La siccità ha messo in ginocchio il settore dell’agricoltura e della pastorizia, le due principali attività per la maggior parte dei paesi dell’Africa Meridionale.

La rapida alternanza tra la siccità e inondazioni riduce drasticamente la quantità e la varietà del cibo a disposizione, influendo negativamente sulla salute dei bambini, i soggetti più esposti a epidemie letali causate dalla mancanza di acqua potabile e il ristagno di acqua putrida a seguito delle forti piogge improvvise. In Malawi si prevede nel 2025 un aumento del 18% dei ricoveri per malnutrizione acuta grave nei bambini; in Namibia metà della popolazione sta affrontando una gravissima siccità dovuta a El Niño; in Zambia oltre 52.000 bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione acuta grave; e ancora in Botswana circa 12.000 bambini sotto i cinque anni risultano gravemente sottopeso a causa della grave crisi del settore agricolo messo in ginocchio dalla carenza di precipitazioni. In Zimbabwe oltre 580.000 bambini vivono in condizioni di grave povertà alimentare dovuta alla scarsità di generi alimentari che ha causato un vertiginoso aumento dei prezzi, rendendo così molti prodotti inaccessibili alla maggior parte della popolazione.

Anche le donne sono più vulnerabili agli effetti della crisi climatica per una serie di fattori sociali, economici e culturali. Nei paesi principalmente colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, la popolazione femminile si occupa principalmente della raccolta di acqua, legna da ardere e cibo. In vari paesi del continente africano, del Medio Oriente e del Sud America, le donne contribuiscono fino al 50% alla produzione agricola e mantengono un ruolo determinante nel sostentamento domestico. Secondo l’Onu, delle 1,3 miliardi di persone che si trovano in condizioni di povertà, oltre il 70% è di genere femminile. Nelle aree urbane e rurali, sono le donne a guidare le famiglie a basso reddito.

In Paesi come Zambia, Mali, Bangladesh e Pakistan le donne partecipano in modo significativo all’agricoltura e alla produzione alimentare. Molte volte si ritrovano ad affrontare i pericoli climatici estremi che causano il fallimento o la distruzione dei raccolti a causa delle inondazioni o della scarsità di risorse idriche a disposizione. In questi Paesi, molto spesso, le istituzioni formali e informali, comprese le norme culturali e sociali, contribuiscono a creare disuguaglianze di genere che esacerbano la vulnerabilità delle donne al cambiamento climatico.

In caso di disastri ambientali, sono le donne e le ragazze a occuparsi maggiormente del recupero dei terreni e della protezione dei raccolti. Le ragazze e le bambine sono spesso costrette a rinunciare agli studi per lavorare nel settore agricolo e per occuparsi del reperimento di acqua potabile. Spesso si ritrovano a dover percorrere un lungo tratto di strada a piedi per reperire l’acqua potabile, ciò aumenta esponenzialmente il rischio di subire aggressioni e ogni tipo di violenze di genere. 

La situazione femminile è resa più difficile dal fatto che le donne tendono ad avere un accesso minore alle informazioni; tutto ciò crea una minore consapevolezza e conoscenza dei rischi climatici e di come gestirli. Le norme sociali e la disuguaglianza di genere in molti paesi limitano la partecipazione delle donne al processo decisionale sia all’interno delle loro famiglie che delle loro comunità, rendendole meno in grado di accedere a servizi adottare nuove pratiche agricole. Possiedono, inoltre, beni di valore inferiore rispetto agli uomini, hanno minore accesso al capitale, e agli input agricoli. Secondo le Nazioni Unite, solo il 12,6% dei proprietari terrieri è donna, dunque la maggior parte (il 90%) dei vari fondi governativi a sostegno dell’agricoltura è destinata a proprietari di genere maschile, escludendo del tutto le donne proprietarie di latifondi dall’accesso di finanziamenti e corsi di formazione per l’utilizzo di nuove tecnologie agricole. Nel complesso, dunque, la capacità delle donne di rispondere alla crisi climatica è notevolmente ridotta rispetto agli uomini.

Da dove si scappa: le aree geografiche

Africa

Nella regione del Sahel le temperature si stanno alzando a un ritmo che supera quello della media nazionale di 1,5 volte. Le piogge sono sempre più sporadiche e le stagioni umide sono quasi del tutto scomparse, lasciando il posto alle alluvioni ormai frequenti. La possibilità di sopravvivere sul territorio diventa sempre più lontana a causa della drastica diminuzione dei raccolti e della scomparsa dei pascoli. Il sostentamento della popolazione nel Sahel dipende dall’agricoltura, dalla pastorizia e dalla pesca, attività fortemente limitate dagli effetti del cambiamento climatico.

Il cambiamento climatico in Mali ha causato una diminuzione della capacità agricola pari al 40%. Il Paese da oltre dieci anni sta vivendo lunghi periodi di siccità che incidono fortemente sulla sicurezza alimentare e provocano la nascita di conflitti intercomunitari per il controllo delle risorse naturali, special modo nelle regioni del Nord e del Centro. L’aumento delle temperature e l’assenza di precipitazioni ha completamente trasformato in deserto il lago Faguibine. che sorgeva nel mezzo del Sahara, fonte di vita per i vari gruppi etnici stanziati nel deserto. Da quando il lago si è prosciugato, dal terreno è iniziato a fuoriuscire gas infiammabile che quando prende fuoco distrugge la poca vegetazione rimasta e lascia il terreno inadatto all’agricoltura. Negli ultimi anni le vaste distese d’acqua e i terreni agricoli che erano irrigati dal fiume Niger sono state sostituiti da dune di sabbia. Tutto ciò rappresenta una vera e propria catastrofe per la popolazione che ormai è costretta a sopravvivere con una stagione delle piogge di appena tre mesi, mentre nel resto dell’anno le temperature si aggirano intorno ai 50°C.

Nel Corno d’Africa la popolazione sta vivendo la peggiore siccità degli ultimi 40 anni. A causa dell’aumento delle temperature in tutta la Regione, la desertificazione sta avanzando senza precedenti. Sono oltre 36 milioni le persone colpite dalle inondazioni in Etiopia, Kenya e Somalia, Paesi che contribuiscono solo in minima parte alle emissioni di gas serra totali, (l’intero continente africano ne è responsabile per appena il 4%). La crisi climatica ha fatto incrementare in modo decisivo il numero dei rifugiati e degli sfollati interni nel Corno d’Africa e nella Regione dei grandi laghi, fino ad arrivare ad oltre 26 milioni di persone in movimento, con i numeri più alti in Etiopia (4,3 mln), Somalia (3,8 mln) Uganda (1,7 mln) e Sudan (909mila).

In tutta la Regione la siccità sta inasprendo i conflitti locali, spesso volti all’accaparramento delle scarse risorse disponibili, come ad esempio l’acqua, provocando una lunga scia di devastazione che porta allo sfollamento di milioni di persone. I soggetti più vulnerabili, come le donne e i bambini, pagano il prezzo più alto di questa ondata di instabilità. Alle donne spetta il compito di assicurare la sopravvivenza della propria famiglia. Pertanto, quotidianamente donne e bambine percorrono a piedi lunghe distanze per avere accesso all’acqua, diventando in questo modo più facilmente vittime di violenze sessuali e di genere. Nel 2023, circa tre milioni di bambini sono rimasti fuori dal sistema scolastico e altri 4 milioni rischiano di abbandonarla del tutto. Oltre a interferire con la loro istruzione, questa situazione aumenta la probabilità che le bambine siano costrette a matrimoni forzati. I genitori sposano le proprie figlie per assicurarsi una dote o per migliorare la propria situazione economica.

In Etiopia a causa della siccità oltre 21 milioni di persone necessitano di aiuti umanitari urgenti, di cui oltre 16 milioni soffrono di insicurezza alimentare. Sono 2,4 milioni i bambini sotto i 5 anni e 1,3 milioni le donne incinte o in allattamento che hanno urgente bisogno di trattamenti contro la malnutrizione acuta. In Etiopia oltre il 91% della popolazione vive in aree rurali e il mezzo principale di sostentamento è la pastorizia. Le comunità agro-pastorali hanno perso tutto, oltre l’80% dei capi di bestiame è scomparso. Negli ultimi 3 anni si è abbattuta su tutto il Paese la più grave siccità della storia recente, causata dal fallimento di cinque stagioni di pioggia consecutive caratterizzate dalla quasi totale assenza di precipitazioni.

In Somalia, la cui economia si sorregge prevalentemente sull’agricoltura e sull’allevamento, la crisi climatica da anni sta inasprendo decenni di conflitto che hanno un impatto devastante sulle persone vulnerabili. Eventi climatici estremi come siccità e inondazioni si sono intrecciati al conflitto che ha provocato un innalzamento vertiginoso dei livelli di insicurezza alimentare che hanno comportato la migrazione forzata di milioni di persone. Nel Paese dal 2021 l’alternanza di siccità e inondazioni ha trascinato il Paese sull’orlo della carestia. 2,6 milioni di persone sono rimaste sfollate e altre 1,5 milioni sono state costrette ad allontanarsi dal Paese. Nel 2022 il Paese è stato interessato dall’ondata di siccità più grave e lunga degli ultimi quarant’anni. Per cinque stagioni consecutive, infatti, le precipitazioni sono state insufficienti, ciò ha incrementato gli scontri per l’accaparramento delle scarse risorse disponibili. Tutto questo ha causato lo sfollamento di milioni di persone, specialmente donne e bambini, i più vulnerabili al cambiamento climatico poiché affrontano maggiori oneri dovuti ai ruoli sociali e norme culturali. La maggior parte degli sfollati interni si è spostato nelle aree urbane, provocando un sovraffollamento che ha causato l’aumento di epidemie. Le stime dell’UNHCR indicano che nel solo 2022 si sono verificati circa 1,8 milioni di nuovi sfollamenti a causa della combinazione di siccità, conflitti e insicurezza. Nel corso del 2023, le inondazioni hanno colpito oltre 468mila abitanti, oltre 419mila persone sono rimaste sfollate. Tutto ciò ha provocato 3 milioni di nuovi spostamenti forzati, dei quali oltre 1,6 milioni a causa delle inondazioni e circa mezzo milione a causa della siccità.

In Kenya a causa delle forti piogge e conseguenti inondazioni hanno perso la vita 267 persone, 280mila sono rimaste sfollate. Gli allagamenti hanno ucciso decine di migliaia di animali da pascolo e distrutto campi coltivati, aziende, infrastrutture, fonti d’acqua.

In Burkina Faso, la crisi climatica si è intrecciata in un contesto di crescente instabilità politica dovuta alla presenza di numerosi gruppi armati che ha costretto oltre 5 milioni di persone ad abbandonare le proprie case. La siccità ha incrementato il livello di povertà che porta ad un aumento delle tensioni legate alla diminuzione delle risorse. In un Paese in cui oltre il 70% della popolazione vive di agricoltura e pastorizia, sono sempre più frequenti i conflitti tra gli agricoltori e i pastori per l’accaparramento delle scarse risorse idriche. I gruppi armati negli anni hanno sfruttato queste tensioni per ridurre le fonti d’acqua e le terre coltivabili.

Medio Oriente

Non solo in Africa ma anche il Medio Oriente è duramente colpito dalla crisi idrica. La drastica riduzione delle precipitazioni sta portando ad un inevitabile prosciugamento dei fiumi e un abbassamento dei livelli di acqua disponibile nei bacini idrici. Tutto ciò si intreccia ad un livello securitario a dir poco critico in zone di conflitto quali lo Yemen e la Siria. In Iraq, uno dei Paesi più colpiti dalla siccità in Medio Oriente, 7 milioni di persone non hanno accesso all’acqua, al cibo e all’elettricità; migliaia di agricoltori hanno abbandonato i propri terreni per spostarsi nei centri urbani, sempre più affollati. Nel nord del Paese, nella provincia di Diyala, le temperature elevate hanno prosciugato le riserve d’acqua e hanno trasformato il lago artificiale Hamrin in una pianura desertica.

In Siria il cambiamento climatico è stato tra i numerosi fattori che hanno contribuito a inasprire la guerra civile. Una grave siccità è dilagata nel Paese tra il 1997 e il 2000 ed è stata registrata come la peggiore dall’inizio delle registrazioni; tutto ciò ha causato un vero e proprio crollo della produzione agricola nella regione nord-orientale del Paese con un aumento del tasso di migrazione dei residenti rurali verso le aree urbane che divenivano sempre più affollate. La siccità ha provocato la distruzione dei raccolti e l’uccisione di migliaia di capi di bestiame. Ad aggravare gli effetti della siccità sono state alcune scelte governative errate da parte del regime di Assad che aveva a lungo incoraggiato la diffusione dei raccolti di grano e cotone che richiedevano un’irrigazione intensiva. Anche prima della siccità, i livelli delle falde acquifere erano scesi drasticamente, rendendo i terreni agricoli molto più vulnerabili. In questo scenario, il disastro ambientale ha messo in crisi l’intero Paese, già largamente provato dai disordini politici, fino all’aggravarsi della situazione interna che si è tramutata in una vera e propria catastrofe umanitaria senza precedenti.

Asia

In Asia, vastissime aree saranno colpite dall’innalzamento del livello del mare a causa dello scioglimento dei ghiacciai. Entro il 2100 il livello del mare potrebbe innalzarsi di mezzo metro, provocando inondazioni e inquinando la maggior parte delle falde acquifere lungo le zone costiere. L’innalzamento del livello del mare che sta interessando maggiorente le isole del Pacifico, causerà la ricollocazione di 10 milioni di persone entro il 2100.

In Afghanistan la siccità minaccia l’economia e la sicurezza alimentare del Paese. Un terzo della sua popolazione, in gran parte dipendente dalle attività legate all’agricoltura, si trova ad affrontare la mancanza di accesso a un’alimentazione adeguata. Il governo talebano non riesce a far fronte all’emergenza per mancanza di fondi che servirebbero per potenziare le infrastrutture e assistere la popolazione. Tra il 1° ottobre 2023 e il 15 gennaio 2024, il Paese ha registrato solo il 45-60% delle precipitazioni medie rispetto agli anni precedenti. L’aumento delle temperature e la conseguente diminuzione delle precipitazioni nevose provocano una grave carenza d’acqua che va ad aggravare i livelli di siccità in tutte le regioni. Circa 25 province su 34 soffrono di condizioni di siccità gravi o catastrofiche, con ripercussioni su più della metà dei 40 milioni di abitanti. Nel 2024 oltre 7,8 milioni di bambini non hanno sufficiente cibo. Tutto ciò aumenta la vulnerabilità dei più piccoli e causa gravi forme di malnutrizione acuta con un conseguente indebolimento del sistema immunitario. La fame porta ad avere  con effetti duraturi sullo sviluppo fisico e cognitivo, oltre ad avere un forte impatto psicologico.

Il surriscaldamento globale provoca lo scioglimento rapido dei ghiacciai e della neve sulle montagne, ma lo sciogliersi di troppa neve troppo velocemente è letale e fa aumentare il rischio di inondazioni primaverili e siccità estiva. La presenza di acqua potabile nel Paese sta diventando sempre più un lusso, in gran parte per la mala gestione delle risorse idriche e la corruzione. Nella capitale, Kabul, il sistema di distribuzione dell’acqua riesce ad arrivare a meno del 20% della città. Dato che la maggior parte dell’acqua delle falde acquifere non è potabile, i cittadini di Kabul sono costretti a scavare pozzi abusivi o ad acquistare l’acqua imbottigliata che diventa sempre più costosa, i cui contenitori contribuiscono a ostruire i corsi d’acqua e a inquinare le fognature stradali. Ad aggravare ulteriormente la situazione afghana negli ultimi due anni il Paese ha subìto la devastazione di due terremoti, uno avvenuto il 22 giugno 2022 che ha colpito la città di Khost e il confine con il Pakistan, provocando 1.000 morti e più di 1.500 persone ferite e l’altro il 7 ottobre 2023 che ha colpito l’area della città di Herat provocando oltre 2.000 morti e 9.000 feriti. Tale tragedie hanno esacerbato una situazione già di per sé drammatica in cui 6 milioni di persone sono a rischio carestia e 29 milioni dipendono dagli aiuti umanitari per la loro sopravvivenza dopo il ritorno al potere da parte dei Talebani nell’agosto 2021.

L’innalzamento del livello del mare sommergerà circa il 17% delle terre costiere del Bangladesh e porterà allo sfollamento di circa 20 milioni di persone entro il 2050. In Asia Meridionale, infatti, la migrazione interna per motivi climatici è destinata a crescere fino ad arrivare a 40,5 milioni di migranti climatici interni, di cui la metà si troverà proprio in Bangladesh. La vulnerabilità del Paese agli effetti della crisi climatica è dovuta a fattori geografici, come la topografia pianeggiante ed esposta ai delta dei fiumi, e a fattori socio-economici, come l’alta densità di popolazione, i livelli di povertà e la dipendenza dall’agricoltura. Il Rapporto sui disastri della Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia e il Pacifico del 2021 afferma che il 77,6% del Bangladesh si trova a meno di 5 metri sopra il livello del mare, pertanto l’innalzamento del livello delle acque dei mari e degli oceani minaccia di sommergere un quinto del Paese. Infine, le tempeste frequenti e l’erosione di oltre 700 fiumi, stanno costringendo la popolazione rurale ad abbandonare i villaggi e a trasferirsi in contesti urbani sempre più sovraffollati. Secondo l’UNICEF, nel Bangladesh orientale sono oltre 2 milioni i bambini a rischio a causa delle inondazioni che hanno travolto interi villaggi. Nel 2023 l’avvento del ciclone Mocha sul distretto di Cox’s Bazar della divisione di Chattogram ha provocato 1,3 milioni di sfollati. Il ciclone ha colpito anche comunità vulnerabili, tra cui i rifugiati Rohingya del Myanmar che vivono a Cox’s Bazar. Oltre 30.000 rifugiati sono stati trasferiti dalle loro case. La tempesta ha distrutto 3.300 case nel distretto e nei dintorni, lasciando più di 13.000 persone sfollate internamente alla fine del 2023. Nello stesso anno il ciclone Hamoon ha colpito le stesse località causando 273.000 nuove evacuazioni.

America latina

Nel 1977 il Venezuela fu il primo paese dell’America Latina a creare un ministero dell’ambiente. Famoso per la sua ricca vegetazione, grandi aree furono dichiarate parco nazionale e furono approvate leggi per la tutela della fauna selvatica. Al tempo la compagnia petrolifera statale, ben amministrata, non aveva necessità di abbattere le foreste per poter lavorare. Oggi la situazione è ben diversa. Dal punto di vista ambientale, il Venezuela è responsabile di meno dell’1% delle attuali emissioni globali, ma nonostante questo continua a subire la maggior parte delle conseguenze del cambiamento climatico, come siccità prolungate e forti piogge che provocano frane e inondazioni. La produzione di petrolio e la mancanza di un efficace trattamento delle acque reflue da parte delle compagnie petrolifere hanno incrementato i livelli di contaminazione dell’acqua. Tutto ciò provoca la distruzione di ecosistemi acquatici e terrestri essenziali per l’esistenza di un ambiente sano. L’uso di mercurio e cianuro nell’estrazione di oro e altri metalli, di cui il paese è ricco, ha generato effetti altamente nocivi sull’ambiente e sulla salute umana. Non si arresta la massiccia deforestazione in tutto il Paese che contribuisce alla desertificazione, all’erosione del suolo, alle inondazioni e all’aumento delle emissioni di gas serra. Si stima che a causa della deforestazione, entro il 2025 oltre 1,3 milioni di ettari di copertura vegetale saranno andati completamente perduti. Inoltre, a causa del surriscaldamento globale, nel 2024 il Paese ha perso il suo ultimo ghiacciaio, riclassificato come campo di ghiaccio. In passato nel Paese vi erano sei ghiacciai nella catena montuosa della Sierra Nevada de Mèrida, cinque dei quali erano scomparsi nel 2011, lasciando solo il ghiacciaio Humboldt. Si prevedeva che il ghiacciaio sarebbe durato almeno un altro decennio, ma i rilevamenti scientifici avvenuti nel 2024 hanno rivelato che il ghiacciaio si è sciolto molto più velocemente del previsto, riducendosi a un’area inferiore a 2 ettari. Le conseguenze del cambiamento climatico, intrecciate all’instabilità politica ed economica, hanno reso il Venezuela il terzo Paese al mondo, dopo la Siria e l’Afghanistan, per numero di rifugiati, con 6,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case per cercare protezione in altri paesi.

In El Salvador, Paese dell’America Centrale, alla fine di maggio 2020 le tempeste Amanda e Cristobal hanno colpito 12 mila salvadoregni che hanno visto completamente distrutte le proprie abitazioni. In sei giorni è precipitata la stessa quantità di acqua che cade normalmente dell’arco dei sei mesi della stagione invernale. Le aree rurali sono state tra le più colpite dalle due tempeste tropicali che hanno spinto migliaia di abitanti a fuggire verso le aree urbane. Circa 284mila quintali di cereali di base sono andati distrutti insieme a migliaia di capi di bestiame. I fiumi Acelhuate e Lempa hanno esondato causando gravi danni alle coltivazioni e alle abitazioni situate sulle rive di questi corsi d’acqua.

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Approfondimenti
Glossario ecologista

MIGRAZIONE AMBIENTALE: spostamento di popoli o persone costrette a migrare temporaneamente o definitivamente entro i confini nazionali oppure al di fuori, a causa di disastri ambientali. Ancora oggi, le persone in fuga per motivi climatici non sono riconosciute ufficialmente in ambito giuridico, pertanto vengono incluse all’interno della categoria di migranti economici.

MIGRAZIONE CLIMATICA: Persone o popoli costrette ad abbandonare le proprie terre a causa di eventi climatici estremi come alluvioni, siccità, desertificazione e innalzamento del livello del mare.

APARTHEID CLIMATICO: apartheid significa “segregazione”. Il vocabolo è stata declinata in ambito climatico da un esperto di diritto internazionale e Relatore Speciale per le Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani Philip Alston. L’apartheid climatico fa riferimento a uno scenario futuro in cui sulla Terra, devastata dagli effetti della crisi climatica, solo le persone più facoltose potranno proteggersi dalle terribili conseguenze del riscaldamento globale, mentre le popolazioni più vulnerabili si ritroveranno sole

COLONIALISMO CLIMATICO: il colonialismo in ambito climatico implica delle responsabilità storiche dei paesi ricchi nei confronti di quelli meno ricchi che hanno subìto da parte di potenze straniere l’estrazione mineraria, l’accaparramento di terre e risorse idriche, le guerre per il petrolio, la distruzione delle foreste.

DECARBONIZZAZIONE: la riduzione delle emissioni di anidride carbonica rilasciate nell’atmosfera a causa delle attività umane.

DIRITTO UMANO AL CLIMA: dal punto di vista giuridico, la dipendenza della vita umana dalla stabilità dell’ambiente trova legittimità all’interno della Carta Mondiale della Natura dell’ONU del 1982, dove gli Stati riconoscono che “la specie umana è parte della natura e la vita dipende dal funzionamento ininterrotto dei sistemi naturali che sono fonti di energia e materia”, e della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, con cui gli Stati aderenti si impegnano a escludere “qualsiasi pericolosa interferenza antropogenica sul sistema climatico”.

ECO-ANSIA: paura profonda che qualcosa di irreversibile stia danneggiando in modo permanente l’integrità ecologica della Terra. I giovani sono i più colpiti dall’eco-ansia poiché sono consapevoli di essere i primi a dover affrontare le drammatiche conseguenze del cambiamento climatico.

GREENWASHING: strategia di comunicazione e di marketing attuata da aziende, enti e istituzioni per dimostrare ai consumatori che i propri prodotti sono generati in modo sostenibile, nascondendone però il reale impatto ambientale.

ANTROPOCENE: l’impatto enorme degli esseri umani sul pianeta. Nello specifico si riferisce a un’era geologica definita dall’impatto degli umani sul pianeta.

CAMBIAMENTO AMBIENTALE: una variazione nei processi ambientali nella maggior parte dei casi di origine antropica o a processi naturali.

DEBITO CLIMATICO: il debito climatico è definito come il consumo eccessivo da parte dei paesi industrializzati della capacità dell’atmosfera terrestre e del sistema climatico di assorbire i gas serra. Il debito climatico si accumula nei confronti dei Paesi in via di sviluppo e della Terra. L’incremento annuale di emissioni di gas serra ne rende sempre più difficile la riduzione da parte delle generazioni future.

TRANSIZIONE ENERGETICA: La transizione energetica è il passaggio dai combustibili fossili alle rinnovabili.

CONFLITTO AMBIENTALE: scontro tra più parti che hanno interessi o visioni differenti circa l’utilizzo dei territori e delle risorse naturali di un territorio che spesso condividono. Generalmente i conflitti ambientali sono causati dalla riduzione delle risorse naturali o dei beni comuni presenti su un determinato territorio.

LAND GRABBING: l’acquisto di vastissime porzioni di terreni agricoli, forestali o altre aree da parte di investitori privati, multinazionali o governi stranieri. Tale fenomeno è diffuso in particolar modo nei paesi in via di sviluppo. Gli enti che effettuano l’acquisto dei territori hanno come obiettivi l’espansione delle produzioni agricole destinate all’esportazione, la produzione di biocarburanti, la speculazione finanziaria, e l’accesso a risorse naturali come acqua e minerali. Il land grabbing ha un impatto devastante sulle comunità locali e sugli ecosistemi.

WATER GRABBING: all’appropriazione delle risorse idriche da parte di investitori privati, multinazionali, governi stranieri, a danno delle comunità locali e degli ecosistemi. Ciò avviene a causa della crescente domanda globale di acqua utilizzata per l’agricoltura, l’allevamento, l’industria, l’energia e il consumo umano. Il fenomeno è particolarmente diffuso nei paesi in via di sviluppo.

CULTURA SOSTENIBILE: data la limitatezza delle risorse terrestri, la cultura sostenibile è un modo di pensare e agire nella società che mira a garantire la prosperità delle generazioni presenti evitando di compromettere quelle future. In particolare si riferisce a un insieme di pratiche quotidiane e atteggiamenti che promuovono uno stile di vita sostenibile.

Suggerimenti

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