L’associazione parola/musica è stata usata fin dall’antichità per trasmettere i miti delle origini e per la recitazione dei testi sacri.
La cantillazione è l’atto musicale per eccellenza, in quanto usa lo strumento primario che il divino ha donato all’uomo: la voce. Consiste in una forma solenne di recitazione dei testi sacri che segue l’andamento del testo, sottolineando il contenuto che si sta esponendo attraverso piccole oscillazioni del ritmo e del volume.
Nell’ambito della lettura dei testi sacri la cantillazione rappresenta quindi il livello più alto dell’espressione della fede e della comprensione intellettuale, che va al di là della parola. Nel canto abbiamo una melodia che si sviluppa, invece nella cantillazione non esiste melodia, ma una singola nota sulla quale viene cantillato un testo.
Cantillazione vuol dire quindi prima di tutto mettere in evidenza un testo, a cui l’elemento ritmico si aggiunge, per farlo emergere. Cantillare allora significa proclamare un testo su una sola nota, corda di recita, che sarà poi accompagnata da altre due o tre note sia nelle cadenze mediane, che nella cadenza finale. La semplicità e la sobrietà sono il segreto di una buona cantillazione; meno è la presenza musicale e più emerge il testo e non viene sopraffatto. Bisogna conoscere bene il testo, saperlo recitare ma è anche fondamentale fare attenzione ai vari segni di interpunzione della frase, agli accenti e dare importanza ai respiri e alle pause.
Nelle religioni monoteistiche, troviamo le radici della cantillazione nell’Ebraismo antico.
Infatti, se si entra in una sinagoga, ci si accorge che i versi della Torah non vengono semplicemente letti ma “cantillenati”, cioè intonati secondo una determinata melodia, stabilita da particolari accenti, chiamati te’amim. Lo svolgimento della lettura può cambiare a seconda delle tradizioni specifiche delle varie comunità ebraiche nel mondo (askenazita, sefardite e italiane).
Te’amin – A questi segni o neumi vengono affidati tre ruoli specifici: accentazione, interpunzione e cantillazione. Essi, come guida al canto sinagogale, pongono diverse difficoltà: non indicano note (altezza, durata, ecc.); hanno numerose varianti secondo gli usi (sefardita, ashkenazita, romano, ecc.); hanno melodie differenti per le varie occasioni rituali (passi riguardanti i profeti, in occasione delle festività, in caso di lutto ecc.).
Cantillazione ebraica, kiddush – benedizione del sabato (shabbat)
Tra le forme più antiche del rito cristiano troviamo gli esordi del canto gregoriano, in cui spicca la tecnica vocale della salmodia (derivato dai salmi biblici).
È una forma vocale di recitazione di un testo sopra un’unica nota, recto tono, per interpretare più sillabe del testo, solitamente un periodo intero di una frase. Il canto gregoriano ha una struttura complessa con particolari significati simbolici, liturgici, rituali e fonici che favoriscono l’avvicinamento al divino. In particolare nel canto corale, l’unione delle voci è il momento in cui l’individuo scompare e si assorbe nella comunità degli uomini che adorano Dio. In particolare, nella tradizione cristiana ortodossa, il canto liturgico (da liturgia, il servizio di culto che si deve a Dio) rappresenta una vera e propria tecnica di contemplazione, effettuata spesso con una particolare modalità nasale. Secondo San Basilio, il canto sarebbe un “arbitro della pace” e “strumento dell’amicizia, mezzo di riconciliazione tra nemici”.
I canti nella liturgia ortodossa sono tuttora suddivisi in tre gruppi di esecutori: i chierici maggiori (celebranti e diaconi),i lettori ei cantori e l’assemblea dei credenti. I celebranti (vescovi e preti) rivolti verso l’altare cioè verso Oriente, s’indirizzano a Dio con delle cantillazioni composte da formule solenni. I celebrantirivolti verso il popolo, eseguono cantillazioni più ornate e con un carattere “acclamatorio”. I diaconi si rivolgono all’assemblea esortandola alla preghiera attraverso litanie (ektenie). Lettori e cantori eseguono i salmi, sia in canto antifonale a due cori, sia come recitativi eseguiti da un unico lettore. L’assemblea dei credenti aderisce con il canto dell’amìn alle preghiere che il celebrante rivolge a Dio, risponde alle esortazioni del celebrante, esegue con i cantori alcuni, come nella tradizione slava, il Credo e il Padre Nostro.
Anche l’Islam sunnita predilige l’uso esclusivo della voce a quello degli strumenti musicali.
È nota la cantillazione eseguita nell’intonazione delle sure coraniche e nella chiamata alla preghiera, l’Adhan, effettuata dal muezzin cinque volte al giorno per richiamare i fedeli.
La lettura cantilenata del Corano sacralizza la parola, proiettandola verso Dio attraverso un canale a Lui gradito e, per questo, viene considerata una vera e propria scienza che richiede studi specifici e approfonditi. La lingua coranica per eccellenza è quella araba, di per sé dotata di grande musicalità, che è composta da 29 lettere, di cui 28 sono suoni consonantici, mentre una, chiamata hamzah, rappresenta il silenzio ed è una sorta di stop gutturale tra suoni.
L’Adhān (in arabo: أَذَان) è la chiamata islamica alla preghiera, di norma fatta dal muezzin. Il muezzin cinque volte al giorno recita l’adhān dal minareto della moschea, allo scopo di richiamare i musulmani alle preghiere obbligatorie. L’adhān sintetizza gli insegnamenti dell’Islam, sui quali si basa l’intera struttura teologica di questa fede.
Ascolra l’Adhan, la chiamata alla preghiera islamica!
Nell’Induismo sono presenti particolari forme di cantillazione dei testi sacri, i Veda, attraverso la tecnica del mantra ovvero “liberare la mente” (dal sanscrito “manas” –mente – e “trayati” – liberare).
Il mantra non è una vera e propria preghiera; con la preghiera, infatti, noi chiediamo qualcosa mentre con il mantra cerchiamo di avvicinarci al divino. All’inizio viene ripetuto molte volte mentalmente avendo cura di non distogliere l’attenzione e, dopo aver raggiunto un certo livello di pratica, lo si potrà anche intonare. È importante combinare ritmicamente il mantra con i processi fisiologici quali la respirazione ed il battito cardiacoperché diventino un tutt’uno. È un suono che permetterebbe quindi alla mente di liberarsi dai pensieri, di avere effetti positivi su spirito, mente e corpo e di trasformare in azione ogni desiderio o volontà umana. Il mantra avrebbe inoltre due aspetti: il primo che servirebbe a fare entrare tutto ciò che si è ascoltato nella mente, il secondo che fisserebbe e conserverebbe ciò che vi è entrato.
Aum – è considerato il suono primordiale. La famosa sillaba è un mantra che rappresenta l’emanazione di Brahman, il Creatore di ogni cosa nell’Universo, e, secondo l’intensità, può essere considerato una vera e propria manifestazione vocale del divino. Si tratta di una formula espressa con una o più sillabe ripetute per un certo numero di volte – “namasarana” – per ottenere uno specifico effetto che si manifesta a livello fisico ed energetico.
Mantra Aum
Anche il Sikhismo ha preservato e ulteriormente sviluppato la pratica della recitazione dei mantra.
Spesso contenenti gli insegnamenti dei dieci guru, punto di riferimento dei credenti, o canti composti in loro onore e dedicati al Creatore, essi possono essere recitati o cantati sia con, che senza l’ausilio di strumenti musicali.
Gurbani significa Parola del Guru. È un messaggio melodico – come sancito dal Guru Granth Sahib Ji, che è la Parola Divina. Dio ha rivelato la Bani attraverso il Guru che lo condurrà, in definitiva alla sua fonte. La lettura della Gurbani richiede concentrazione, comprensione e cuore. Il devoto deve meditare sul messaggio della Gurbani. Solo questo può aiutarlo a liberare la mente dai cattivi pensieri e purificare la sua anima. La presenza della Gurbani per la coscienza interiore è essenziale. Guru Nanak Dev Ji dice “fate una barca del sacro nome, poi con i remi della fede, attraversate l’oceano dell’illusione”.
Gli Shabad, inni sacri, presenti nel Guru Granth Sahib Ji sono stati scritti in base alle diverse fasi di sviluppo spirituale. Per esempio, in un inno sacro, Guru Nanak dice che con uno sforzo individuale, è possibile incontrare Dio, mentre in un altro inno dice che austerità e meditazione non servono a nulla senza la Grazia del Signore. Con la comprensione e la pazienza, è possibile conciliare le cosiddette contraddizioni. In questo caso, la preghiera all’inizio è dovuta ad uno sforzo personale, ma in seguito, si può osservare che questo sforzo è assistito da Dio.
Il mantra dei miracoli, è una preghiera Sikh in onore di Guru Ram Das, il guru capace di manifestare miracoli, che viene cantato proprio per evocare un avvenimento miracoloso in situazioni particolarmente difficili. Attraverso la recitazione del mantra si evoca il dominio di Guru Ram Das, considerato Il Regno del cuore, della Mente Neutra, dove tutte le cose diventano pure.
Mantra dei miracoli
Il Buddhismo, nelle sue varie tradizioni, adotta particolari forme di cantillazione per recitare i sutra che possono assumere anche grandi livelli di difficoltà dovuta alla lunghezza della preghiera e prevede, quindi, una grande tecnica di controllo del respiro ed emissione del suono.
La parola sutra in sanscrito significa “filo per infilare le perle” e le perle rappresentano gli insegnamenti. Nel Buddhismo ci sono molti sutra, alcuni discendenti direttamente dalle parole del Buddha, altri da quelle degli altri maestri illuminati. Spesso vengono recitati dopo la meditazione, momento in cui ci si trova in uno stato di coscienza favorevole alla comprensione degli insegnamenti e si è maggiormente predisposti a creare armonia tra corpo e mente. Inoltre, recitare i sutra è un modo per essere un unico corpo e un’unica mente con tutti i meditanti.
Il sutra del cuore è uno dei canti più eseguiti e diffusi, soprattutto nella tradizione buddhista mahāyāna, per la sua brevità e densità di significato. La versione cinese è spesso recitata, con gli adattamenti alla pronuncia locale, nelle cerimonie Zen in Cina, Giappone, Corea, Vietnam. Consiste di soli quattordici śloka (versi) nella versione in sanscrito. Il sutra si apre con l’esperienza della “visione profonda” ottenuta dal bodhisattva della compassione Avalokiteśvara che rivela la vacuità e l’insostanzialità (śūnyatā) dei cinque skandha (elementi): forma (rūpa), sensazione (vedanā), percezione (saṁjñā), discriminazione (percezioni mentali, samskārā), e coscienza (vijñāna), cioè tutte le parti in cui è articolata, secondo la filosofia buddhista, la realtà fisica e psichica.
Sutra del cuore
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