Lo troviamo con un cappellino da babbo natale in testa, in un reparto di psichiatria di un ospedale romano. «Jacob come stai?» e miracolosamente ci sentiamo rispondere «Meglio». È questa l’immagine che riaffiora alla mia mente di quest’anno al Centro Astalli.
Nei giorni che avevano preceduto il ricovero ci chiedevamo se l’ospedale sarebbe stata la soluzione migliore. Come saremmo riusciti a convincere lui che da tanti anni viveva nel suo mondo. Ultimamente le sue condizioni di salute stavano seriamente peggiorando. Dormendo per strada la mensa agli Astalli per tanti anni è stato il suo unico riferimento. La sua storia di rifugiato abita ormai solo i ricordi di alcuni degli operatori e volontari storici.
Tutti conoscono Jacob agli Astalli. C’era anche durante la visita di papa Francesco nel settembre 2013, allertando la sicurezza della Gendarmeria vaticana coi suoi modi fuori dalle convenzioni.
Alla fine abbiamo deciso che era necessario il ricovero. Oggi Jacob vive in un centro di prima accoglienza e sembra rinato.
Questo piccolo racconto credo riassuma in sé tanti aspetti. Non è solo una storia ma è una persona come ne passano molte al Centro Astalli. Jacob rappresenta la centralità che ciascun individuo riveste nel guidare il nostro agire e dice di uno stile di operatori e volontari che sanno mettersi in ascolto anche in situazioni che sembrano senza soluzione e in cui serve un guizzo di creatività e di coraggio.
In un momento storico in cui criteri economici rischiano di essere predominanti nelle scelte relative alle politiche di accoglienza è bene ricordarlo: chi salva una vita salva il mondo intero.
Mai e poi mai si deve insinuare nel cuore di un Paese democratico che salvare una vita è uno spreco. Ridare la possibilità di ricominciare a chi fugge da persecuzioni e guerre oltre che un dovere sancito dai trattati internazionali è il fondamento del vivere civile. Nel ringraziare amici, benefattori operatori e volontari del Centro Astalli per il sostegno, l’aiuto e l’affetto auguro a tutti voi un felice 2016. Con la speranza che la frase del Vangelo: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”, sia sempre meno vera per i rifugiati.