Fino al 1054 tutta la chiesa era unita e quindi, in un certo senso, ortodossa. Presenze greche (legate alle tradizioni bizantine) e in seguito albanesi (soprattutto dal Cinquecento) resero più o meno sempre presente in terra italiana, la chiesa ortodossa (o – per meglio dire – bizantina, che dell’Ortodossia è la maggiore espressione).
La chiesa russa però non appartiene del tutto a tale filone storico-culturale, ed è arrivata in Italia e a Roma in tempi e modalità diversi. Più che di semplice chiesa come edificio, si potrebbe forse parlare di comunità di san Nicola, che per lungo tempo corrispose alla comunità russa di Roma.
Andando con ordine, le origini di questa comunità sono in realtà diplomatiche: all’inizio dell’Ottocento, venne inaugurata a Palazzo Odescalchi (in piazza Santi Apostoli), dove allora risiedeva la missione diplomatica russa, una cappella riservata a chi lavorava lì, e non era ovviamente concessa una libertà di culto generalizzata. Per decenni dunque la sede di una chiesa destinata a questo uso venne spostata di luogo in luogo, da via del Corso a Palazzo Giustiniani, e fu solo con l’arrivo dell’Italia laica e della donazione della principessa Černyševa della sua residenza, che questa ebbe la sua attuale collocazione a via Palestro, in modo definitivo dagli anni ’30 del Novecento. La chiesa si trova in quella che era la sala principale del palazzo, al piano terra, e per questo non è grandissima.
Come nella maggioranza delle chiese ortodosse, il luogo più decorato e rappresentativo è quello dell’iconostasi e lo spazio retrostante, il santuario. Nelle chiese ortodosse, infatti, a partire dal XIII secolo si è iniziato a separare lo spazio dell’altare (il santuario, appunto) dal resto della chiesa, analogamente a quanto succedeva anche in occidente nelle chiese gotiche con l’introduzione del pontile.
L’iconostasi, però, non è semplicemente una barriera che delimita l’area più sacra della chiesa, ma è una vera e propria parete, a volte alta fino al soffitto, che cela i misteri che vengono celebrati sull’altare, a ricordo del Tempio di Gerusalemme, e che è accessibile solo da tre porte che possono essere attraversate solo dagli addetti all’altare (vescovi, preti, diaconi, ministranti e alcuni monaci e monache): queste porte si chiamano porte diaconali (perché hanno di solito su di loro le raffigurazioni di santo Stefano e di san Lorenzo e vengono attraversate soprattutto dal diacono), poste ai lati, e porte regali quelle poste al centro, che possono essere attraversate solo dai ministri ordinati e solo per motivi liturgici. L’altare dunque al di fuori delle celebrazioni non è visibile. Questo è riflesso della teologia ortodossa, in parte diversa da quella cattolica, che non cerca di spiegare tutto solo razionalmente ma che cerca sempre di preservare il mistero che viene celebrato nel culto, solo parzialmente comprensibile all’uomo.
Ogni chiesa ortodossa è molto ricca di immagini, cosa ereditata dalla lotta contro l’iconoclastia – collocate in luoghi ben precisi e stabiliti dai canoni conciliari – e anche questa non fa eccezione: le icone, della prima metà dell’Ottocento, sono opera del celebre pittore Karl Pavlovič Bryullov, del pittore di origine italiana Bruni, di Hoffman Markov e Basin. Di queste, forse le più interessanti sono quelle di Bryullov, artista romantico e non credente, che dipinse pochi soggetti religiosi (il suo dipinto più famoso sono gli Ultimi giorni di Pompei), sepolto peraltro nel cimitero acattolico di Testaccio. Suoi sono i sei medaglioni sulle porte regali, che raffigurano gli evangelisti, Maria e l’arcangelo Gabriele, su un modello evidentemente ispirato a Raffaello.
Foto in anteprima e nel testo: Archivio Centro Astalli/Valentina Pompei
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