Il Centro Astalli Palermo nasce nel 2003 grazie a un gruppo di volontari della Comunità di Vita Cristiana che decise di organizzare una scuola di italiano per stranieri presso il CEI – Centro Educativo Ignaziano. Nel 2006 viene inaugurata la sede operativa nello storico quartiere Ballarò, dove oggi vengono offerti diversi servizi: da quelli di prima accoglienza per i migranti arrivati da poco in Italia a quelli volti all’inclusione e all’autonomia socio-lavorativa dei rifugiati.

Il Centro offre diversi servizi di prima accoglienza: la colazione, le docce, la distribuzione di indumenti, la scuola d’italiano (con tre livelli di insegnamento), il doposcuola, la consulenza legale, l’ambulatorio medico e lo sportello lavoro. Al fine di favorire l’integrazione e l’inserimento sociale, il Centro propone anche una serie di attività di seconda accoglienza: laboratori artigianali, preparazione alla scuola guida, corsi di lingue straniere, che hanno l’obiettivo di creare occasioni di incontro tra i migranti presenti nel territorio e i cittadini residenti. Per valorizzare lo scambio con il territorio, tutte le attività portate avanti prevedono un lavoro sinergico ed integrato tra i diversi attori sociali palermitani come parrocchie, scuole e altre associazioni. La rete di supporto risulta indispensabile per rispondere ai bisogni della persona e funzionale alla risoluzione delle diverse situazioni di disagio.

L’azione quotidiana dei volontari permette la costruzione di una relazione personale e di fiducia con i migranti, che sia diretta alla lettura attenta dei tanti bisogni e allo sforzo di costruire insieme risposte sempre progettuali, attraverso soprattutto un costante lavoro di rete sul territorio. Ogni giorno all’interno del centro, operatori e volontari offrono orientamento e accompagnamento legale, sanitario e sociale finalizzato all’autonomia e all’integrazione degli ospiti nel tessuto cittadino. Lavorare su percorsi di autonomia e integrazione dei rifugiati è fondamentale. 

Il Centro Astalli Palermo ha potuto ospitare 50 richiedenti asilo e rifugiati in due strutture di accoglienza messe a disposizione dai gesuiti e in convenzione con il SAI, una situata nei pressi della Chiesa del Gesù di Casa Professa, l’altra presso il centro di Via Franz Lehar dedicata a nuclei familiari e donne singole, gestita in semi-autonomia dai beneficiari. In entrambi i centri si è registrato un aumento del numero di persone con situazioni sanitarie gravi, condizione che ha determinato l’attivazione di percorsi di accompagnamento particolarmente complessi. Inoltre, si è registrato un innalzamento dell’età delle persone ospitate, con una conseguente maggiore difficoltà nell’apprendimento dell’italiano e nella progettazione di percorsi di inserimento lavorativo. La crisi del mercato immobiliare sta rendendo estremamente complicato l’inserimento abitativo degli ospiti in uscita dai centri.

I giovani sono al centro delle attività di educazione alla cittadinanza e al rispetto dei diritti umani che il Centro Astalli Palermo realizza nelle scuole del territorio tramite il progetto Finestre. Nel 2022 è iniziato il percorso di formazione per volontari intrapreso assieme al Centro Astalli Catania L’Isola che non isola per offrire opportunità di incontro, confronto e scambio di buone prassi.

Dati

Contatti

Centro Astalli Palermo
Piazza Santi Quaranta Martiri al Casalotto 10/14 – 90134 Palermo
Tel.  091 9760128
www.centroastallipalermo.it
[email protected]

Presidente: Alfonso Cinquemani
Vice Presidente: Carmelo Cottone
Coordinamento: Dina Arcudi, Emanuele Cardella, Donata Perelli

  • operatori: 10
  • volontari: 152
 

Testimonianze

1200 dollari per un posto su un gommone

Ali è un ragazzo di 26 anni, sudanese, giunto in Italia vivo per miracolo. È uno dei tanti arrivati dal mare. Dopo essere stato 60 giorni nel centro di prima accoglienza a Lampedusa e 30 giorni nel centro di permanenza temporanea di Agrigento, è stato espulso dall’Italia senza la possibilità di chiedere asilo.  Una volta giunto in Inghilterra, nel rispetto della Convenzione di Dublino, gli hanno spiegato che doveva presentare richiesta di asilo nel primo paese europeo in cui era stato. Ora, con un permesso per motivi umanitari, che finalmente gli è stato concesso dalle autorità italiane, sogna di fare il fornaio, il mestiere che gli ha insegnato suo padre.

Come è iniziato il tuo viaggio per l’Italia? Scusa se insisto ma promettimi di usare un altro nome per l’intervista. Mia madre non sa nulla di quello che ho dovuto passare per arrivare qui. Le ho solo detto che è andato tutto bene, che il viaggio è stato tranquillo. Lei non voleva che io partissi e così ho preferito rassicurarla: non deve sapere che suo figlio ha conosciuto da vicino la morte. Il mio viaggio per arrivare in Italia è iniziato in un tir: eravamo in 105 stipati uno vicino all’altro, ognuno con il suo posto pagato 100 dollari per attraversare il deserto fino in Libia. Il viaggio è durato una settimana, il cibo era poco e l’acqua meno. Ci facevano sgranchire le gambe una volta al giorno per cinque minuti. 

Una volta arrivato in Libia cosa hai fatto? Sono stato due mesi a Tripoli prima di poter partire per l’Italia. Non sapevo bene come fare a contattare chi organizza i viaggi, ma ci ho messo poco a capire a chi mi dovevo rivolgere per lasciare la Libia. Ho incontrato un gruppetto di sudanesi che mi hanno messo in contatto con un tizio, anch’egli sudanese. Poche parole, niente convenevoli: 1200 dollari è il prezzo di un posto su un  gommone per un viaggio che – mi dicevano – “dura al massimo 12 ore: in questo periodo non c’è da preoccuparsi,  il mare è calmo e non c’è vento”. Il 1 agosto del 2004, un giorno prima della partenza, sono stato avvertito che l’indomani all’una di notte mi sarei dovuto trovare in una spiaggetta nascosta non molto lontana dal porto. Oltre a me quella notte c’erano altre 16 persone ad aspettare. Eravamo tutti giovani uomini sudanesi tranne un ragazzo e una coppia di coniugi ghanesi. Il marito si era offerto di guidare il gommone e per questo non aveva pagato la sua quota. Sapevamo che il viaggio doveva durare un giorno e avevamo con noi un panino a testa, un pezzo di formaggio e una bottiglia d’acqua per tutti. Ci avevano detto di non portare nulla perché sul gommone non c’era spazio per i bagagli. In realtà non c’era spazio nemmeno per diciassette persone, eravamo tutti molto stretti uno vicino all’altro. Comunque pensavo che dodici ore le avrei sopportate abbastanza facilmente. 

Come è andata? Sei riuscito a sopportare queste dodici ore di viaggio? Ci abbiamo messo sei giorni ad arrivare. Cinque di noi non ce l’hanno fatta. Un vero incubo: dopo 25 ore di navigazione entrava acqua nel gommone e avevamo finito cibo e acqua da bere. Abbiamo avuto un barlume di speranza quando è comparsa all’orizzonte un’enorme nave bianca. Ci siamo avvicinati per chiedere soccorso. Dalla nave ci dicevano di allontanarci, che non ci avrebbero fatto salire. Vedevamo la nave allontanarsi insieme all’unica possibilità di salvarci tutti.  Dopo altri due giorni così ormai eravamo esausti, pensavo di morire, che non ce l’avrei fatta e che era stato tutto inutile. Durante la notte tra il quarto e il quinto giorno quando l’acqua ormai ci arrivava al collo, abbiamo deciso di tentare il tutto per tutto, tanto ormai non avevamo più nulla da perdere. E così abbiamo staccato il motore dal gommone per alleggerirne il peso e inoltre abbiamo buttato in acqua le taniche di benzina che avevamo a bordo. Quattro di noi hanno deciso di mantenersi a galla con le taniche vuote, abbondando per sempre l’imbarcazione che era inservibile. Io e gli altri non ce la siamo sentiti di seguirli e così siamo rimasti tutti vicini uno sopra l’altro appoggiati alla parte anteriore del gommone. I quattro che avevano scelto di affidarsi alle taniche vuote, spinti dalla corrente, non sarebbero mai arrivati in Italia. 

Come siete giunti in Italia? Al sesto giorno eravamo tutti consapevoli che non avremmo visto la notte. Un’onda più grande delle altre ci ha buttati tutti sott’acqua per circa venti interminabili secondi prima di riemergere. È stato terribile. Siamo stati travolti dall’onda in tredici ma siamo riemersi solo in dodici: la moglie del ghanese non ce l’aveva fatta. Il marito non aveva il coraggio di guardare. Ormai non c’era più niente da cercare o da raggiungere, anche le nostre vite erano perdute. Dopo qualche minuto abbiamo avvistato una nave ma ormai eravamo sicuri che neanche stavolta ci avrebbero aiutato. A questo punto credo di aver penso i sensi. Mi sono risvegliato su una barca con delle persone che mi davano da bere e mi tenevano la fronte. 

Fa male ricordare? Certo fa male. Ma quello che fa più male è sentirsi chiamare clandestino e sentire le notizie al telegiornale di quelli che muoiono. Nessuno dice che siamo disperati, che siamo disposti a morire pur di lasciare i nostri paesi distrutti dalle guerre. Nessuno immagina cosa significa arrivare vivi in Italia. Nessuno sa quanta gente specula sulla nostra vita.