Il cibo è, per gran parte delle religioni, un valore oltre che una sostanza o un prodotto: ieri come oggi, i fedeli riconoscono nel mangiare e nel bere azioni cariche di un forte significato religioso.

Gli alimenti non sono solo sostanze che contengono principi nutrivi, e non possono essere le uniche chiavi di lettura per interpretare il cibo. Il legame tra la natura e le finalità del legame tra il cibo e la sfera del sacro è un campo affascinante quanto ancora inesplorato. Certamente il cibo è, per gran parte delle religioni, un valore oltre che una sostanza, che facilita e predispone il contatto tra gli uomini e realizza, nelle sue specificità, l’incontro con la divinità e/o con la natura di cui l’uomo è parte integrante.

Ogni religione impone che il rapporto tra creatura e Creatore, tra natura e uomo, si declini attraverso mediazioni simboliche e il cibo, tra queste, costituisce un potente paradigma religioso. Ieri come oggi i fedeli riconoscono nel mangiare e nel bere azioni cariche di un forte significato religioso.

Abituati come siamo a consumare il cibo in fretta, da soli, in piedi e spesso compiendo contemporaneamente altre azioni, le religioni ci ricordano uno stile di vita completamente diverso da quello odierno. Esse considerano il cibo un dono del divino e/o della natura, il che dovrebbe richiamare tutti alla consapevolezza del nutrirsi, a non dare per scontata la disponibilità del cibo e a non ridurre i pasti a una successione di gesti automatici. Numerose sono le azioni di lode, benedizione, ringraziamento e preghiera sul cibo e per il cibo.

Inoltre tra le pratiche alimentari che accomunano diverse religioni troviamo, nelle loro specificità, l’invito all’astinenza e al digiuno. Come il consumo di cibo? Anche la rinuncia ad esso ha un valore sacrale e spesso comunitario: è incontro con il divino e unione con gli altri credenti. Oltre alla condivisione di un pasto, ai fedeli viene anche richiesto infatti di rispettare insieme un tempo di digiuno, in cui si porta attenzione al sacro e all’appartenenza a una collettività durante il vivere quotidiano. Spesso si pone anche l’accento sulla consapevolezza che il cibo è un dono che molti non hanno; sentire la fame può aiutare a essere più generosi con chi non può permettersi neppure un pasto al giorno.

Anche le festività sono l’occasione per ricordare che l’uomo vive in uno spazio e in un tempo in cui si relaziona in qualche modo con la divinità. Esse sono però, al tempo stesso, un invito a non dimenticare l’opera del creato e gli impegni che gli uomini hanno verso ciò che li circonda.
Nelle feste è quindi presente una vera e propria specificità alimentare, che contraddistingue il menù festivo dal consumo di cibo quotidiano. Gli alimenti consumati quindi rimandano spesso al significato religioso della festività e/o ai cibi indicati nei testi sacri.

Vediamo ora alcune valenze simboliche che le religioni più diffuse al mondo danno al cibo in generale o ad alcuni alimenti in particolare.

L’Ebraismo,

oltre a osservare norme e precetti alimentari specifici, dà molta importanza all’obbligo di ringraziare Dio per il cibo donato:

Mangerai dunque e ti sazierai, e benedirai l’Eterno, il tuo Dio, a motivo del buon paese che t’avrà dato. (Deuteronomio 8, 10)

Oltre alla benedizione quotidiana sul cibo, la berakah, troviamo anche cibi che hanno un valore simbolico specifico durante alcune festività.

Ad esempio, durante la festa del Pesah, il menù ebraico rappresenta, in ogni sua componente, la memoria fondativa del popolo ebraico. La Pasqua ebraica cade il quindicesimo giorno di Nisan, in marzo o aprile. Questa festa antichissima celebra l’esodo degli ebrei dalla schiavitù di Egitto, che condusse alla creazione della nazione ebraica. Fuggendo dall’Egitto, gli ebrei non ebbero il tempo di far lievitare il pane e anche ora gli osservanti mangiano solo matzot, o altro pane non lievitato. La prima e la seconda notte di Pesah sono celebrate dal Seder, un rituale in cui viene rievocata la storia della Pasqua e viene servita una cena importante. Sulla tavola compare un vassoio con una zampa di agnello, simbolo sacrificale per eccellenza dal celebre il passo della Bibbia che vede Abramo immolare l’animale in luogo del figlio Isacco, un uovo sodo strinato sulla fiamma e immerso dall’acqua salata, in ricordo della schiavitù egiziana, un gambo di sedano, un rametto di prezzemolo e verdure intinte nell’acqua salata, in ricordo delle lacrime versate in Egitto, un composto di noci, mele e miele, in ricordo degli ebrei che fabbricavano mattoni, radici ed erbe amare, in ricordo della perdita della libertà.

Il sabato, lo Shabbat, si celebra un rito chiamato Kiddush in cui si rende grazie a Dio per l’opera della creazione. Durante il Kiddush si benedicono il vino e la challah, una treccia di pasta dolce tipo pan brioche, che viene consumata durante lo shabbat. Il vino è il simbolo della gioia e dell’immortalità, mentre la challah ricorda la manna che il Signore diede agli ebrei nel deserto.

Anche nel capodanno ebraico, il Rosh Hashannah, in cui si usano fare grandi cene, si servono tradizionalmente cibi dolci come fette di mela nel miele, per evocare la speranza di un anno dolce a venire.

La Festa dei Tabernacoli, Sukkot, il quindicesimo giorno di Tishri, commemora il periodo in cui gli ebrei vagavano nel Sinai e dormivano in capanne. Quattro sono le piante simboliche: il cedro, i germogli di palma, il mirto ed il salice.

Nella festa di Hannukah, la festa delle luci che celebra la vittoria degli ebrei guidati da Giuda Maccabeo sui Siriani del re Antioco Epifane, nel 165 a.C.. Al ritorno a Gerusalemme, Giuda trovò il tempio sconsacrato da rituali pagani, ma il poco olio (di oliva) santo rimasto nel candelabro (menorà) bruciò miracolosamente per otto giorni, quando teoricamente sarebbe bastato per molto meno. Ancora oggi vengono accese giorno per giorno le otto luci della lampada di hannukah.

L’olio si ritrova anche in cucina, dove domina la frittura. Esso è una forte metafora della Torah e dell’ebraismo in generale: resta separato dagli altri liquidi, anche se mischiato nello stesso recipiente, mantiene la sua purità. Così come gli ebrei che, pur vivendo nella diaspora, hanno mantenuto salde le loro radici senza mescolarsi o assimilarsi. L’olio di oliva possiede inoltre la proprietà di permeare ogni sostanza, come la Torah, che si diffonde e permea ogni cosa.

La festa di Purim rievoca la liberazione degli ebrei di Persia grazie a Ester, ebrea, moglie del re di Persia, e Mordecai (o Mardocheo) da un complotto progettato da Haman – ministro del monarca persiano – per sterminarli. La tradizione vede lo scambio di regali culinari, per lo più dolciumi. Un esempio sono Le orecchie di Haman, variante delle chiacchere (o frappe, o cenci o crostoli…) di Carnevale e, nella tradizione aschenazita padana, il Mandel Reis, biancomangiare di riso.

Shavuot è la festa del raccolto che celebra la consegna dei dieci comandamenti a Mosè sul monte Sinai. Dal punto di vista gastronomico la Pasqua di Rose, come la chiamano gli ebrei italiani, è la festa del pane e dei prodotti di magro derivati dal latte. Tra i dolci figura il “Monte Sinai”, marzapane con uova filate e cedri canditi, profumato all’acqua di fiori d’arancio.

Gli ebrei digiunano in varie occasioni; quello più conosciuto e praticato è il digiuno di Yom Kippur, di cui si trova menzione già nella Torah ( Levitico 16, 29-31; 27-32; Numeri 29,7).
Inizia al crepuscolo del decimo giorno del mese ebraico di Tishri (che cade tra settembre e ottobre del calendario gregoriano) e continua fino alle prime stelle della notte successiva.
È il giorno ebraico della penitenza, dell’espiazione dei peccati e della riconciliazione. È proibito mangiare, bere, lavarsi, truccarsi, indossare scarpe di pelle ed avere rapporti sessuali.

Anche nel Cristianesimo

ci sono periodi in cui osservare digiuni e astinenze, come ad esempio il mercoledì delle Ceneri e il venerdì di quaresima, in cui non si dovrebbe mangiare carne in ricordo del sacrificio di Gesù sulla croce. 

Esiste inoltre un’altra forma di digiuno, quella che precede l’Eucaristia, in cui bisogna astenersi da cibi e bevande per almeno un’ora prima della Comunione. La chiesa ortodossa applica delle regole di digiuno e astinenza molto più severe, sia durante l’anno che durante la Settimana Santa. Ad esempio gli Ortodossi in alcuni momenti dell’anno praticano la monofagia (mangiano cioè una sola volta al giorno) o la xerofagia, ossia consumano cibi secchi.

Nel Nuovo Testamento il primo esempio di digiuno ci viene dall’episodio in cui Gesù nel deserto rifiutò il cibo per quaranta giorni e quaranta notti. Come lui, anche gli apostoli Giovanni e Paolo osservarono alcuni giorni di digiuno. Il significato è quello della rinuncia come mezzo per raggiungere uno scopo spirituale oppure di penitenza per espiare i propri peccati. Tuttavia nei Vangeli non vi sono inviti a effettuare digiuni rigorosi e lunghi.

Al termine della quaresima inizia la festività cristiana nella quale si rendono più manifesti i simbolismi religiosi legati al cibo: la Pasqua. L’uovo di Pasqua rimanda alla risurrezione di Gesù, uscito dal sepolcro e salito al cielo. L’uovo è un potente simbolo di rinascita, fertilità e vita per diverse religioni, si pensi, ad esempio, alle tradizioni religiose dell’antichità romana, ai culti in onore di Venere o ai riti pagani dedicati alla dea dell’agricoltura Cerere.
Nelle festività pasquali, inoltre, compare spesso la simbologia dell’agnello, simboleggiato dall’ostia o dal pane che, insieme al vino, rappresentano il corpo e il sangue di Gesù che si offre all’umanità morendo sulla croce in redenzione dei peccati.

L’olio è un elemento importante per i cristiani. Gesù viene infatti definito “Cristo”, traduzione greca della parola “Messia”, che significa “Unto (del Signore)”. Anche nei salmi l’olio è simbolo di benedizione divina. L’olio profumato, detto crisma, si usa nella liturgia cattolica del Battesimo, della Cresima e dell’Ordine come segno di consacrazione. Già nella Chiesa antica, infatti, l’olio consacrato era considerato segno della presenza dello Spirito Santo.

 

Per l’Islam

il digiuno e l’astinenza rappresentano uno dei cinque pilastri della fede; infatti nel mese di Ramadan (che può durare dai 28 ai 30 giorni) definito ogni anno con una frequenza diversa secondo il calendario lunare, il musulmano che osserva il precetto, si astiene da cibo, acqua, fumo e rapporti sessuali, dall’alba al tramonto. Esso pone il credente di fronte alle sue dipendenze fisiche e mentali, è un periodo in cui si ristabilisce un rinnovato equilibrio. Un esercizio fisico e  un impegno mentale e spirituale. Infatti è importante astenersi anche dai cattivi pensieri e dalle cattive parole; è quindi consigliabile riconciliarsi con le persone care con le quali sia aveva avuto discussioni in passato.

Inoltre la fame sperimentata nei giorni precedenti ricorda a tutti che il cibo è uno dei più grandi doni di Dio e che è un dovere di ogni musulmano farsi carico della comunità, soprattutto di chi non può permettersi neppure quell’unico pasto giornaliero. Chi non può adempiere all’osservanza del digiuno, per problemi di salute o perché in viaggio, può posticiparlo o offrire un pasto ai musulmani indigenti, per ogni giorno di digiuno previsto, in base alle sue possibilità.

Il digiuno, siyam o sawm, sarebbe legato alla consegna del Corano al profeta Maometto proprio durante il sacro mese di Ramadan; il musulmano perciò, attraverso l’astensione, si reintegra, si purifica e si nutre della parola divina. Durante l’osservanza di questo pilastro della fede, infatti, si presta particolare attenzione al menù, perché è nel cibo condiviso che si concretizza il ringraziamento a Dio. Sempre presenti sulla tavola, al momento serale della rottura del digiuno, sono i datteri spesso immersi o accompagnati da un bicchiere di acqua o di latte per preparare lo stomaco al pasto. A questo proposito si mangiano quindi minestre, verdura, frutta e molti dolci con il miele, per reintegrare liquidi e calorie necessarie al giorno seguente.

L’uso di questi alimenti precisi viene da alcuni versetti del Corano:

Allah fa scendere l’acqua dal cielo e suo tramite rivivifica la terra che già era morta. Questo è certamente un segno per gente che ascolta. E invero dalle vostre greggi trarrete un insegnamento: vi dissetiamo con quello che è nei loro visceri, tra chimo e sangue: un latte puro, delizioso per chi lo beve. [Pure] dai frutti dei palmeti e delle vigne ricavate bevanda inebriante e cibo eccellente.

Ecco un segno per coloro che capiscono Ed il tuo Signore ispirò alle api: «Fatti case nei monti, negli alberi e in quel che (gli uomini) costruiscono; mangia quindi di tutti i frutti e viaggia mansueta per le vie del tuo Signore!». Dal corpo delle api esce una bevanda di colori svariati [il miele], che contiene guarigione per gli uomini; in questo è sicuramente un Segno per gente che riflette. (Sura XVI, 65 – 69)

Al termine del Ramadan c’è la festa di “rottura del digiuno”. Essa, pur essendo molto popolare e sentita, viene denominata, id al fitr, “piccola festa”, per distinguerla dalla “grande festa”, id al-adha, che coincide con la fine del periodo di pellegrinaggio alla Mecca e con il sacrificio, che Allah chiese ad Abramo nei confronti di suo figlio Ismaele. Infatti, anche in questa festa, come per la Pasqua ebraica e cristiana, si mangia prevalentemente carne di agnello.

Al termine del mese di Ramadan, si pratica anche un altro dei cinque pilastri dell’Islam: il versamento della zakat (zakàtu-l-fitr), una somma di denaro pari al valore di un pasto per ciascun componente della famiglia.

Infine, anche nel quotidiano, è obbligatorio, prima di cibarsi, ringraziare Dio, in quanto il cibo viene considerato in ogni momento un dono divino:

Non cibatevi di ciò su cui non è stato invocato il nome di Dio, sarebbe cosa ingiusta, sicuramente. (Sura VII, 121)

 

Nel Buddhismo

il digiuno è un mezzo per ottenere un livello più alto di spiritualità, un esercizio pratico verso il Nirvana, una fase iniziale di autodisciplina.

Il desiderio, secondo Buddha, era la causa e la radice della sofferenza e il cibo è il desiderio più basilare dell’uomo. Il digiuno è uno dei dhutanga (sacrifici, rinunce) che i monaci praticano periodicamente per avvicinarsi al risveglio, all’illuminazione. L’illuminazione spirituale di Buddha è strettamente legata al digiuno, in quanto egli vi è arrivato subito dopo averlo interrotto. Così si arriva alla conclusione che non è il cibo, né l’astensione da esso che porta alla “liberazione”, ma la moderazione.

Il Buddhismo conferisce inoltre particolare valore non solo al cibo stesso ma anche alle modalità di preparazione dei pasti. Cucinare viene infatti considerato un prezioso atto del Buddha e un metodo per coltivare se stessi. In particolare, nella tradizione zen, il cuoco, chiamato tenzo, riveste un ruolo di grande responsabilità e prestigio. Il Buddha ha infatti riconosciuto il fatto che tutti gli esseri viventi sono legati gli uni agli altri, che mutano forma e in qualche modo “migrano” da un corpo a un altro, attraverso l’alimentazione; per questo occorre particolare dedizione verso il prossimo, devozione verso gli alimenti e rispetto nella preparazione del cibo.
È importante che il cuoco si assicuri che nulla vada sprecato, riutilizzando successivamente gli scarti, sviluppando così un senso di gratitudine per la vita originaria degli ingredienti e verso tutti i legami impliciti contenuti in un pasto.

Anche il momento di consumare il cibo segue una particolare procedura, lenta nella pratica e intensamente spirituale, in quanto atto consapevole e indispensabile con cui ci teniamo in vita. Prima dei pasti si recita solitamente un verso delle cinque contemplazioni (Gokannoge) che recita:
Riflettiamo sugli sforzi grazie ai quali questo cibo è giunto a noi e sulla sua origine.

Nel Buddhismo zen, la cerimonia dell’Ōryōki, “Universo nella ciotola” è il rituale associato al momento dei pasti. Lo scopo di questa pratica è rendere anche il momento di condivisione del cibo un’occasione di pratica di attenzione, consapevolezza, e meditazione in cui si ricorda l’interdipendenza della propria vita con quella di tutti gli esseri senzienti, e la possibilità di raggiungere l’illuminazione a beneficio di tutti, attraverso la pratica e l’impegno.

Si tratta di una cerimonia del pasto formale che restituisce sacralità all’atto del mangiare e al cibo, elemento che accomuna tutti gli esseri viventi. Tale sacralità si esprime attraverso la spiritualità e il corpo. Senza lo spirito, la cerimonia dei pasti diventerebbe puro atto di forma. Anche mentre assumiamo i pasti, l’attitudine della mente e dello spirito deve essere quella della pazienza, del dono, dello sforzo e della disciplina. Corpo, parola e mente sono un tutt’uno (sutra dei pasti). La cerimonia di Ōryōki deriva dalla sacralità conferita ai pasti in ogni tradizione buddhista, ed è una tradizione presente fin nelle prime comunità, sangha, quando i monaci mendicanti, seguaci del Buddha, condividevano le offerte che avevano raccolto dalla questua nelle città.

La cerimonia dei pasti è praticata in tutti i monasteri delle diverse tradizioni. Nello Zen giapponese, essa è stata sviluppata come una vera e propria pratica a sé stante, con un rituale complesso ed articolato. Un set di Ōryōki consiste in un insieme di ciotole, di diverse dimensione, avvolto da un panno. Tradizionalmente, le ciotole sono di legno laccato, ma in molti monasteri sono in uso anche ciotole di bachelite – e utensili coperti da una bustina. Vari maestri Zen affermano che consumare i pasti con Ōryōki coltiva gratitudine, consapevolezza, e una migliore comprensione del sé. 

 

Nell’Induismo

l’astinenza dal cibo è una delle prassi più importanti nella vita di un fedele; nel calendario lunare induista è infatti previsto un digiuno l’undicesimo giorno dopo la luna calante e l’undicesimo giorno dopo la luna crescente. Spesso si digiuna anche alla vigilia di alcune ricorrenze sacre.

Secondo le sacre scritture indù, il digiuno è uno strumento di autodisciplina che stabilisce un rapporto armonioso tra il corpo e l’anima. Inoltre la parola per “digiuno”, sanskrita upvas, significa sedere vicino (a Dio), indicando il movimento di unione con l’assoluto.
Il digiuno, quindi, è una negazione delle necessità e della gratificazione del corpo a favore della spiritualità. Attraverso il controllo del corpo fisico, delle emozioni e della mente, si può arrivare all’obiettivo finale della conoscenza e liberazione dal ciclo della rinascita.

Inoltre, nell’induismo, una persona può digiunare per adempiere un voto religioso chiamato vrata.

Le offerte (puja) di cibo alle divinità rivestono un ruolo fondamentale nell’induismo. In particolare la festa in onore di Ganesha è l’occasione per presentare piatti tipici a base di latte e riso, alimenti principali anche per la celebrazione di altre feste quali Kumbha Mela, Pongal, Navaratri, Dasara, in cui troviamo anche frutta e dolci.

Il latte è chiamato il “cibo miracolo” perché contiene tutte le sostanze nutritive necessarie ad una buona salute e ad una buona spiritualità. Il latte è infatti l’alimento che rende l’uomo interdipendente dalla mucca, considerata una delle madri della società umana; è anche soggetta alla circumambulazione dei fedeli intorno ad essa, come segno di ringraziamento. Il legame dell’uomo e la mucca rappresenta un esempio dell’armonia della natura. I derivati del latte di mucca servono anche per illuminare i templi indù: la combustione del burro chiarificato, ghee, permette l’accensione di fiammelle.

Ogni cibo deve essere cucinato e preparato secondo un rito antichissimo che prende il nome di prasada, in cui la divinità “gode” o “assaggia” il cibo offertogli dai fedeli e poi condiviso dagli stessi. Offrire cibo e solo successivamente ricevere prasāda è fondamentale per la pratica della puja.

 

Il Sikhismo

conferisce al cibo non solo un valore sacrale ma anche sociale.
Il secondo Guru, Angad Dev, introdusse infatti il langar, la cucina libera, comunitaria, aperta a tutti, indipendentemente da religione o casta, costruita e mantenuta attiva grazie alle offerte dei fedeli. Il pasto, preparato e servito da volontari, si gusta seduti sul pavimento uno accanto all’altro. Condividere il pasto a terra significa trasmettere un senso di uguaglianza e fraternità, oltre l’appartenenza religiosa, la classe sociale, lo status sociale. I langar sono presenti in ogni tempio sikh ed è possibile consumare il pasto in qualsiasi momento della giornata. Ma cosa viene servito? 

I principali cibi serviti sono un dolce sacro chiamato prashad, che viene benedetto alla fine della funzione, fritture vegetariane e il dhal, un piatto a base di lenticchie accompagnato da roti, un pane di forma rotonda fatto con farina integrale di frumento e acqua, non lievitato e cotto in un forno. Nei langar viene servito cibo vegetariano in ricordo delle parole del Guru Granth Sahib, testo sacro della religione sikh:

Se dite che Dio risiede in tutti, perché uccidete una chioccia?” (Guru

Granth Sahib, 1375).

E ancora: Se sangue o carne sono consumati da un essere umano, come

può il suo cuore essere puro? (Guru Granth Sahib, 140).

Tale scelta, inoltre, permette a tutti, al di là della religione che si professa, di entrare e mangiare stando certi di poter consumare il cibo preparato senza trasgredire norme alimentari.

Un’altra occasione in cui è possibile percepire l’importanza del cibo come dono e come momento di condivisione, apertura all’altro, fratellanza per i sikh è proprio il festeggiamento del Nagar Kirtan, la festa che chiude la celebrazione del Vaisakhi nel mese di aprile.

In questa giornata i fedeli non soltanto si riuniscono per leggere testi sacri, ma seguono una processione che passa per le strade della città (debitamente pulite, sistemate e decorate con fiori). Durante la processione, viene distribuito cibo (prevalentemente frutta) ai presenti, non necessariamente interessati a seguire la processione, ma magari semplicemente accorsi per curiosità o casualmente di passaggio.

Nel frattempo, in uno spazio appositamente predisposto, si consuma, spesso all’aperto, un pasto in comune. Anche qui, chiunque desideri festeggiare con la comunità sikh questa speciale ricorrenza, è benvenuto: una minuziosa distribuzione dei compiti assicura in queste occasioni un’organizzazione impeccabile e la condivisione di cibo offre un’occasione di dialogo con i membri della comunità.

 

Foto: Centro Astalli/Valentina Pompei

Foto nel testo: Centro Astalli/Valentina Pompei

Foto in anteprima: pexels-cottonbro-studio-4038217 (ad uso gratuito)